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Alessandro Oppes per “la Repubblica”
Un terremoto politico rischia di far saltare le fondamenta del bipartitismo spagnolo. Nato appena otto mesi fa, il movimento anti-casta Podemos è già il primo della classe: stando al sondaggio Metroscopia pubblicato domenica su El País, raccoglierebbe il 27,7 per cento dei consensi, un punto e mezzo in più rispetto ai socialisti del neoleader Pedro Sánchez e un vantaggio di 7 punti sui popolari del premier Mariano Rajoy, fermi al 20,7 per cento (contro il 44 delle ultime politiche, che gli valse la maggioranza assoluta in Parlamento).
Una scossa radicale che è conseguenza della strategia vincente adottata fin dall’inizio dalla nuova formazione, guidata da un gruppo di politologi e sociologi sotto la leadership indiscussa del docente universitario Pablo Iglesias, dal maggio scorso parlamentare europeo insieme a un agguerrito gruppo di altri quattro rappresentanti della stessa formazione.
Con il rigore dei ricercatori, hanno saputo realizzare una diagnosi perfetta dei mali della Spagna, e con una maestria unica nell’utilizzo della Rete (unica rispetto ai ritardi dei partiti tradizionali) hanno ampliato a una velocità vertiginosa la base del consenso. Al punto che, se quando si sono buttati nella mischia, non avevano un minimo di struttura, ora hanno già oltre 200mila affiliati (più del Psoe), anche se le iscrizioni avvengono online senza l’obbligo del versamento di una quota.
Iglesias — che ha acquisito un’enorme notorietà nel corso dell’ultimo anno grazie alla frequente partecipazione a programmi tv di dibattito politico, in cui ha rotto gli schemi affrontando a viso aperto i rappresentanti dell’odiata “casta” — ha sempre detto fin dall’inizio che l’obiettivo della sua avventura politica era quello di «andare al potere». Ma né lui né i suoi più stretti collaboratori (lo hanno ammesso in questi giorni) pensavano che l’ascesa potesse essere così rapida e travolgente.
Il fatto è che, a dare loro una mano involontaria è lo stesso sistema di potere in vigore dal periodo della transizione postfranchista, che si sta sgretolando a vista d’occhio sotto i colpi delle inchieste della magistratura. Decine di scandali, alcuni di enorme portata, colpiscono al cuore i vecchi partiti, a cominciare dal Pp, al governo del paese come della maggior parte delle autonomie regionali.
Uno dopo l’altro, in pochi giorni, sono caduti personaggi di primissimo livello come l’ex ministro dell’economia ed ex direttore dell’Fmi Rodrigo Rato, travolto dal caso delle carte di credito in nero di Bankia (istituto di cui è stato presidente) distribuite tra alti funzionari e consiglieri di amministrazione per sostenere spese personali fuori controllo, dagli acquisti di gioielli e automobili alle vacanze da sogno; l’ex ministro dell’Interno di Aznar, Ángel Acebes, poi nominato da Rajoy segretario generale del Pp, coinvolto nello scandalo dei finanziamenti in nero del partito, per il quale è già in carcere l’ex tesoriere del Pp Luis Bárcenas.
E, ultimo, il potentissimo Francisco Granados, che per anni fu il numero due dei popolari a Madrid: si è scoperto che, mentre pontificava in tv sulla lotta alla corruzione, organizzava su scala regionale un’impressionante rete di traffico d’influenze che, in questi giorni, ha portato in carcere decine di amministratori locali (Granados è stato rinchiuso in una prigione che lui stesso aveva inaugurato sei anni fa).
Poche ore prima che scoppiasse quest’ultimo caso (“Operación Púnica”, come è stata definita dalla Guardia Civil), Rajoy aveva minimizzato la rilevanza degli scandali definendoli «algunas pocas cosas», qualche cosetta. Subito dopo ha dovuto chiedere perdono in Parlamento. Ma agli spagnoli, forse, le scuse non bastano più.
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