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Maurizio Stefanini per "Libero"
Tra mezzo miliardo di dollari all'anno e un miliardo di dollari al mese: tanto potrebbe costare agli Stati Uniti la decisione di intervenire in Siria, una stima che è accompagnata comunque dal caldo consiglio di evitare di creare un vuoto di potere come quello che si è determinato in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein o anche in Libia, e che viene da qualcuno che in proposito se ne intende.
Primo perché Martin Dempsey, il 61enne generale dei carristi di origine irlandese che l'ha fatta, è dal primo ottobre 2011 il presidente dei Capi di Stato Maggiore Congiunti delle Forze Armate Usa, dopo essere stato il capo di Stato maggiore dell'esercito. Secondo, perché lui in Iraq c'è stato, come comandante di una Prima Divisione Corazzata cui era stato aggregato il Secondo Reggimento di Cavalleria Corazzata e una brigata dell'82esima Divisione Aviotrasportata.
Task Force Ferro era stata soprannominata à in riferimento al vecchio soprannome della divisione, «Old Ironsides». Fu durante i 13 mesi di quel comando che Dempsey dovette gestire l'insorgenza di Bagdad dopo la battaglia di Fallujah. Per Thomas Ricks, il celebre giornalista esperto di cose militari che alle guerra irachena ha dedicato un libro dal titolo espressivo di «Fiasco», Dempsey fu uno dei pochi generali a riuscire a gestire l'emergenza «bene».
E lo stesso Dempsey fa riferimento esplicito a quell'esperienza quando illustra la sua analisi col commento: «abbiamo appreso la lezione del decennio scorso». Secondo una lettera aperta indirizzata da Dempsey ai senatori, che si erano rivolti a lui proprio perché vorrebbero conferirgli un secondo mandato, gli Stati Uniti avrebbero di fronte a loro cinque possibili opzioni per intervenire in Siria.
Il primo scenario prevede innanzitutto un'assistenza all'opposizione anti-Assad, curandone anche l'addestramento, e inviandole armi e consiglieri. à uno scenario simile a quello con cui gli Usa appoggiarono la resistenza antisovietica in Afghanistan, e che in effetti gli Stati Uniti hanno già iniziato, anche se solo a un livello iniziale, dando ai rifugiati siriani aiuti umanitari e all'opposizione siriana materiale bellico non letale.
Anche questa ipotesi, avverte Dempsey, sarebbe comunque «un atto di guerra», e comunque costerebbe mezzo miliardo all'anno. Il secondo scenario prevedrebbe invece «colpi limitati»: non solo appoggio indiretto, ma azioni dirette di aerei e/o forze speciali. Ma già qui si arriverebbe al miliardo di spesa al mese, cifra da ritenere indispensabile anche per gli scenari ulteriori. à col terzo, bell'imposizione di una no fly zone, che si andrebbe a uno scenario di tipo libico.
Scenario numero quattro: creare zone cuscinetto all'interno della Siria. E qui presumibilmente prima ancora che colpire Bashar Assad l'obiettivo sarebbe di offrire protezione alle gente colpita dalla guerra. Infine, ipotesi più decisa, un intervento per «mettere sotto controllo l'arsenale chimico di Damasco»: teoricamente sarebbe anch'essa un'opzione limitata, ma in pratica il precedente iracheno potrebbe implicare che come con Saddam Hussein anche qui potrebbe essere necessaria un'invasione, per togliere al dittatore le sue armi di distruzione di massa.
Messa in questi termini, la lettera aperta di Dempsey potrebbe sembrare un appello degli alti gradi ai politici a evitare pasticci. «Usare la forza non è una decisione da prendere alla leggera», scrive. Ma in realtà gli analisti la considerano sotto un profilo assolutamente opposto: è infatti la prima volta che un funzionario Usa parla espressamente di un'ipotesi di intervento, sia pure per soppesarne anche i contro oltre i pro. Segno che, evidentemente, Barack Obama ci sta pensando.
Ci sono i problemi ulteriori di ottenere il via libera dell'Onu di fronte a un presumibile veto russo, convincere alleati ormai esausti e riluttanti, destabilizzare ulteriormente l'area, trovarsi in guerra anche con l'Iran. Ma anche un massacro che continua senza fine è un problema: la cifra dei morti per la guerra civile siriana ha ormai oltrepassato le 90.000 persone, e quella dei rifugiati 1,7 milioni.
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