DAGOREPORT - È TORNATA RAISET! TRA COLOGNO MONZESE E VIALE MAZZINI C’È UN NUOVO APPEASEMENT E…
Fabio Martini per La Stampa
Ogni tanto, come una fola impazzita, nei Palazzi romani si diffonde una voce: Andreotti sta per morire. Ogni volta la chiacchiera gira e da sola si spegne per manifesta infondatezza. Ma ieri mattina è stato l'«indiziato» di morte imminente a voler smentire l'ennesima vociferazione maligna, la stessa che quasi ogni mese si mette a correre per la città eterna.
E lo ha fatto, scrivendo due righe a «Dagospia», l'agenzia online specializzata in indiscrezioni, che nei giorni scorsi aveva raccontato di un Andreotti ricoverato in clinica, in condizioni molto critiche. Ha scritto il senatore a vita: «In questi giorni mi giungono voci insistenti di un mio ricovero per aggravamento di salute. Capisco che molti attendono un mio passaggio a "miglior vita", ma io non ho... fretta. Ringrazio tutti coloro ai quali sta a cuore la mia salute e in particolare il Signore per l'ulteriore... proroga». Comunicato in perfetto stile andreottiano («l'ha dettato lui», dicono dal suo entourage) in tutto e per tutto. Nell'umorismo disincantato. E nell'allusione a chi silenziosamente si augura una sua morte.
Comunicato andreottiano anche per la coerenza con una delle sue massime: «Meglio tirare a campare che tirar le cuoia». Certo, una ventina di anni fa Andreotti - col frigido pragmatismo che i suoi detrattori hanno sempre disprezzato - si riferiva alla sorti del suo ultimo governo, che certo non brillava per decisionismo. Certo, la massima, coniata per l'ultimo governo della Prima Repubblica sembra ora aver trovato nuovi interpreti nella Seconda, ma la novità - diciamo così - è che Andreotti ne ha fatto una sorta di mantra anche nella sua vita privata.
Una vita quotidiana che negli ultimi tempi è diventata inevitabilmente molto più faticosa e dolorosa di prima. La vita di un uomo di 92 anni, pieno di acciacchi, che negli ultimi anni ha perso quasi tutti gli amici ed è inevitabilmente angustiato dalle naturali amarezze dell'età sua, ma anche della moglie, donna Livia, che negli anni d'oro della famiglia Andreotti, era soprannominata «la marescialla» per via dell'indole un tempo militaresca, seppur bilanciata dallo stile defilato.
Nella sua casa di Corso Vittorio Emanuele, a cinquecento metri dal Vaticano, Giulio Andreotti continua a svegliarsi all'alba e, quando si sente, viene preso sotto braccio da uno dei carabinieri di fiducia e si avvia verso la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini per la messa delle 7,25.
La mattinata prosegue verso lo studio di palazzo Giustiniani, dove il senatore trova una delle persone più importanti in questa fase della sua vita, la segretaria Patrizia, una quarantenne romana, attentissima ad ogni esigenza del vecchio Giulio. Gli ordina l'amato cappuccino, guarnito da una «veneziana», una brioche tonda sormontata da una goccia di crema e dalla granella di zucchero.
Gli legge il giornale e ingrandisce i brani che Andreotti vuole scorrere per conto proprio. Patrizia ha preso il posto della mitica «signora Enea», Vincenza Enea, la segretaria degli anni ruggenti. Romanissima, la trovavi in pantofole, mentre faceva la maglia, al terzo piano di piazza San Lorenzo in Lucina e se l'interlocutore era fidato, si sentiva dire: «Vacce' da solo, il presidente te' aspetta...».
Visi, parole, stili di un mondo andreottiano che non c'è più. Un mondo, spesso, segnato da un cinismo e da feroci violenze. Un mondo che non esiste più, o che si è defilato, ora che Andreotti non ha più potere. Naturalmente non mancano quelli che, per affetto, continuano ad andarlo a trovare - l'ex assessore di Roma Corrado Bernardo - o quelli che si fanno vivi con una telefonata, come Gianni Letta, Pier Ferdinando Casini, Clemente Mastella. Talvolta anche Giulio Tremonti.
E resta inossidabile il legame con tutti i più alti prelati, dal cardinal Bertone in giù, escludendo però Camillo Ruini, col quale Andreotti non ha mai avuto un rapporto idilliaco. Ma il grosso delle sue giornate scorre con i ritmi e le ansie di una persona alle soglie del novantatreesimo compleanno.
E d'altra parte il tema della morte (degli altri) è sempre stato caro ad Andreotti. E' stato lui, molti anni fa, a raccontare di quell'ufficiale medico che, durante la visita militare, evidenziando «una insufficienza toracica», predisse al giovanissimo Giulio: «Lei ha ancora sei mesi di vita». Il racconto di Andreotti si concludeva così: «Quando diventai ministro della Difesa, lo feci cercare. Ma non lo trovai: era morto lui».
E questa storia - muoio prima io o prima lui? - in controluce sembra tornare anche nel comunicato di ieri. Quando Andreotti scrive: «Molti attendono un mio passaggio a "miglior vita"...». A chi alluderà il senatore? I suoi nemici politici sono morti tutti prima di lui, da Aldo Moro ad Amintore Fanfani, da Bettino Craxi, a Francesco Cossiga e la reciproca antipatia con Oscar Luigi Scalfaro non è tale da autorizzare illazioni di alcun tipo.
Forse è solo un modo di dire, anche perché chi lo conosce, racconta che verso i magistrati che lo hanno processato a Palermo, Andreotti ha sempre nutrito «amarezza» ma non ostilità , immaginandoli come semplici portatori di un disegno più ampio. Nei prossimi giorni Andreotti lascerà la clinica dove effettivamente era stato ricoverato per una bronchite. Ma prima di tornare a casa, ha voluto diffondere quel comunicato.
Verrebbe da dire: scrivendo una precisazione, Andreotti ha finito per smentire se stesso, visto che per una vita ha sempre ripetuto: «Mai fare una smentita, è come dare una notizia due volte». Ma stavolta, più che una smentita, il vecchio Giulio voleva dare una notizia: io ci sono ancora.
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