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M. Mart. per "il Messaggero"
Giovanni Pellegrino se lo ritrovò davanti nel 1993. Andreotti già premier per sette volte e lui senatore da appena tre anni: «Devo fare un omaggio alla verità : ero intimidito. Lui aveva un curriculum gigantesco, io ero un giovane parlamentare, eppure presiedevo l'organismo che doveva decidere se concedere l'autorizzazione a processarlo per mafia oppure a negarla».
Come andò?
«Lui fu cortese, aveva quel suo tono sommesso. Ricordo un uomo estremamente combattuto. Vedeva quella sua particolare situazione come una sorta di vendetta nei suoi confronti».
Da parte di chi?
«Era convinto che dietro le accuse di Buscetta, che era stato estradato dagli Stati Uniti, ci fosse proprio la mano americana. Come se avessero voluto fargli pagare le sue più recenti sortite filopalestinesi».
Era accusato di associazione mafiosa. Cosa le disse?
«Mi disse che non conosceva i cugini Salvo. Che non era colluso con la mafia. Ma il discorso riguardava soprattutto l'opportunità o meno di farsi processare a Palermo».
Che accadde?
«Io dissi al presidente Andreotti che se la Dc avesse voluto evitargli quel processo, aveva i numeri in aula per bloccare l'autorizzazione. Ma che doveva valutarne l'opportunità . La gente non avrebbe capito. La Democrazia cristiana avrebbe contratto un debito che sarebbe stata chiamata a pagare ben presto, anche perché sull'onda lunga di tangentopoli stava crescendo il furore popolare».
Lui cosa disse?
«Ne parlammo a lungo, era preoccupato per la sede del processo, Palermo, quel tribunale che lui definiva il Palazzo dei veleni. Il partito si divise intorno a lui».
In che modo?
«Da una parte c'era la corrente di coloro che condividevano l'opportunità di affrontare il processo: i Martinazzoli, i Mazzoli, i Pinto. Ricordo che furono evocate le parole della vedova Schifani al funerale di Capaci».
Gli altri chi erano?
«Quelli che suggerivano di negare l'autorizzazione erano gli inquisiti, con Vitalone in testa. Durante i dibattiti sedevano intorno ad Andreotti e sembrava volessero isolarlo dagli altri».
Ci riuscirono?
«No. Andreotti capì che quel processo andava fatto. Anche dopo aver visto il furore che si era scatenato con l'autorizzazione a procedere concessa a Craxi. Mandò una lettera alla Giunta anticipando che avrebbe invitato i componenti a dare il loro parere favorevole alla proposta. E così fece».
Cosa disse?
«Spiegò di essere estraneo alle accuse, ma che era giusto che si celebrasse il processo. Fu da quel giorno che Giulio Andreotti inaugurò l'atteggiamento della difesa "nel" processo, contrapposta a quella della difesa "dal" processo. Un atteggiamento che ritenni essere politicamente molto saggio. Fu allora che cominciò quella condotta da imputato modello che poi conservò in tutti i processi».
Lo incontrò di nuovo?
«Certo. E ogni volta mi colpiva per il suo minimalismo e per la sua memoria spaventosa. Andreotti era un uomo che se rispondeva ad una domanda, ripeteva la stessa risposta identica se quella domanda gliela facevano vent'anni dopo. Ricordo che quando raccontava una vicenda, sminuzzava i fatti in tanti piccoli episodi, circoscrivendoli. E alla fine l'interlocutore non capiva nulla. Un giorno glielo dissi e lui mi rispose: "Troppa luce può anche accecare"».
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