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Franco Bechis per Libero Quotidiano
C' è un passaggio illuminante della relazione che ha fatto ieri Matteo Renzi davanti alla assemblea del Pd. Un esempio che ha voluto raccontare in quell' aula che si spellava le mani per gli applausi: «Un mio amico, sostenitore del sì, in Sicilia tre giorni dopo il referendum incontra 26 persone che si presentano selezionate opportunamente per 3 posti di lavoro, li ascolta. Poi alla fine a ciascuno di loro chiede cosa hanno votato. Ragazzi giovani, bravi, competenti. Ventiquattro no, un sì, uno non è andato a votare. Domanda quel manager perché tutti e 26 erano lì. Perché avevano qualcuno che li aveva sponsorizzati».
E subito dopo un peana sulla meritocrazia e all'Italia quando finalmente smetterà di cercare raccomandazioni. Il passaggio è illuminante - e non è il solo - perché offre il cuore di quella autocritica che il Pd attendeva ieri dopo averlo fatto invano nelle direzioni che hanno seguito la sconfitta referendaria. Quel raccontino che gli aveva fatto il suo cacciatore di teste personale in Sicilia offre una lettura che è apparsa più volte nel discorso di Renzi: sì, il 4 dicembre lui ha sbagliato, e questo lo dice l' innegabile risultato referendario.
Ma perché ha sbagliato? Perché aveva pensato che gli italiani potessero essere alla sua altezza: moderni, desiderosi di novità. Invece quelli lì che hanno votato no sono ancora la vecchia Italia che cercava raccomandazioni e il posto fisso. È il limite dell' autocritica di Renzi: non lo è davvero, perché pensa di non avere sbagliato lui, ma che l' errore l' abbiano compiuto gli elettori.
Intendiamoci, il difetto è comune a esponenti politici di ogni provenienza. Basti guardare come leggendo parole altrui Virginia Raggi si è scusata con mezzo mondo per avere insistito sulla nomina di Raffaele Marra nel suo raggio magico. Non è diverso Silvio Berlusconi che anche in tempi recenti l' evidente errore di avere appoggiato il governo Monti, o di avere votato e fatto votare la riforma Fornero, l' ha nascosto dietro un auto-assolutorio «questo l' ho fatto per il mio solito senso di responsabilità». I nostri leader politici hanno il complesso di Fonzie, il bullo di Happy Days (una sit com che andava per la maggiore fra gli anni Settanta e quelli Ottanta): quando doveva ammettere un errore e provava a dire «ho sbagliato», non gli riusciva mai chiaro e semplice perché gli si attorcigliava la lingua.
FONZIE RENZIE E RICHIE CUNNINGHAM LOTTI
Certo Renzi si è dimesso da presidente del Consiglio, e a dire il vero anche questo gesto chiaro e tondo è divenuto poi balbettato con la lingua attorcigliata per la promozione nel governo di Maria Elena Boschi e Luca Lotti, che sono la sua ombra. Quindi mezze dimissioni. Quando ha dovuto fare il mea culpa, certo che l' ha fatto. Ma anche lì gli si è attorcigliata la lingua alla Fonzie. Un «ho sbagliato» vero e proprio non gli è uscito davvero di bocca. Ieri l' ha detto spiegando che il suo errore è stato non capire la «politicizzazione», che è un po' come dire di non avere capito prima la trappola che gli facevano altri: un modo di condividere lo sbaglio. Ma ha anche detto che altri nel mondo hanno perso i referendum e mica sono stati linciati come è capitato a lui: guardate un po' il presidente colombiano che è stato pure premiato all' indomani con un premio Nobel.
Forse Renzi ci ambiva. Infatti in tutti gli altri passaggi della sua autocritica l' errore è diventato magicamente collettivo. L'«io» è diventato «noi», la lingua si è attorcigliata come a Fonzie. «Non abbiamo perso, abbiamo straperso. Punto». E ancora: «Abbiamo perso al Sud: il nostro approccio non è stato disinteresse ma abbiamo pensato fosse sufficiente una politica di investimenti senza pensare a un coinvolgimento vero». Oppure: «Il punto vero è che la nostra efficienza è stata minore della nostra empatia. Abbiamo fatto bene le slide, ma non abbiamo ascoltato il dolore di chi non ce la faceva. Non sono le perle che fanno la collana, ma il filo. E noi non siamo riusciti a raccontare qual era questo filo...».
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