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Mattia Feltri per “la Stampa”
C’è la settimana corta: in Parlamento dal martedì al giovedì. In realtà cortissima: si comincia martedì dopo pranzo e si finisce giovedì per rincasare comodi a ora di cena. C’è la proposta, ora di Matteo Renzi, di introdurre la settimana lunga, cioè cinque giorni di lavoro e sabato e domenica a riposo, che poi tanto lunga non la si direbbe, al di qua di Montecitorio è la norma; soprattutto è una proposta che è come quel mestiere, la più vecchia del mondo: la nobilissima memoria di palazzo, Pasquale Laurito, conosciuto come Velina Rossa, sbuffa e sorride e mima la notte dei tempi. «Ci hanno provato tutti», dice, e non ci è riuscito nessuno.
Una faticosa ricerca d’archivio porta alla fine della Prima repubblica e il presidente della Camera era Nilde Iotti e fu lei a incaricarsi dell’iniziativa accolta in un interesse generale, specie fra i partiti, poi replicato con pari entusiasmo nei lustri successivi. Perché sulla faccenda sono tutti d’accordo, anche oggi, con qualche se e qualche ma (lo si scrive senza intenti ironici). Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia (uno che effettivamente al lavoro non manca mai), non aspetta altro: «Va benissimo, io sono qui, ci saranno anche i miei.
Nessuno ha paura di lavorare di più, ma sarebbe il caso che il governo si decidesse a lavorare meglio: ci manda dei decreti che di così malpensati e malscritti non se ne sono visti nella storia repubblicana». Obiezione classica, questa, e altrettanto classica la successiva, del senatore leghista Jonny Crosio: «Ma questi del governo non sanno nemmeno che vuol dire stare sotto padrone: arrivare alla mattina presto e sgobbare fino a sera. Al martedì in Senato non si comincia mai prima delle 16. Non sarebbe meglio cominciare martedì alle nove e finire giovedì alle 20? Non sarebbe già molto? Lavoro di più al lunedì e al venerdì quando faccio il consiglio provinciale della Lega, incontro i sindaci, i militanti». In gergo si dice: curare il territorio.
Dall’ufficio del presidente del Senato ricordano che Pietro Grasso, con l’ottimismo del novizio, ha suggerito la settimana lunga in qualche conferenza dei capigruppo, ma è tutto tramontato lì. «Eppure – dicono i suoi collaboratori – quest’autunno c’è un sacco di roba e qualche seduta in più farebbe comodo». Nel caso, il ministro Dario Franceschini festeggerebbe: «È una mia battaglia sin da quando facevo il capogruppo. Magari».
Però da noi le cose sono strutturate in modo che i migliori propositi finiscono in muffa: la definitiva provvisorietà dei calendari imporrebbe settimane di maratona, come ce ne sono, e altre da appendere le amache in aula.
Imporre qualche oretta di seduta in più non sarebbe un affronto ma ieri, alla Camera, non sembrava tanto strano un lunedì di onorevoli indaffarati quanto l’armamentario messo in piedi: quattro catafalchi in mogano con tendine in velluto purpureo entro cui si infilavano i parlamentari – convocati con appello – a scrivere su un bigliettino il nome dei prescelti alla Corte costituzionale, prima i senatori, poi i deputati, cioè quasi mille persone se fossero stati tutti presenti; alla prima chiama saranno stati la metà, e dopo la prima chiama ce n’è una seconda a beneficio degli assenti alla prima: un delirio da cinque-sei ore per un’operazione per la quale un analfabeta tecnologico escogiterebbe un sistema da dieci minuti scarsi.
E però va benissimo: rifacciamoci questa partita che uno come Luciano Violante credeva di avere vinto nel 1998, quand’era lui al comando di Montecitorio. Allungò la settimana ma soprattutto accorciò il mese: lavorate cinque giorni anziché tre e poi vi lascio l’ultima settimana del mese così vi curate il vostro bel territorio, disse. Cambiò pure il regolamento - e si scrissero articoli sulla novità - ma poi devono averlo ricambiato perché non se ne è saputo più nulla. La volta successiva toccò a Fausto Bertinotti: anche lui (2006) pensò alla settimana lunga e al mese corto soprattutto perché gli eletti all’estero non sapevano che fare di un week-end per quanto infinito, se gli toccava di tornare in Australia o in Argentina.
Gianfranco Fini ne fece la battaglia di legislatura: voleva anche accorciare le ferie. È che infine vincono sempre le obiezioni: «Siamo in aula anche il lunedì!», dicono i dieci o dodici che presenziano il giorno delle risposte alle interrogazioni. Se lo inventarono, ricorda Laurito, di modo che Giorgio Almirante avesse un pomeriggio tutto per sé. Ogni lunedì parlava tre o quattro ore, e Giancarlo Pajetta gli diceva: «Quando te ne vai, spegni la luce». In effetti è spenta.
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