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Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera"
«Questa sentenza dimostra che si può avere fiducia nella giustizia, ci sono ancora giudici a Berlino», commentò l’ex presidente della Provincia di Palermo Francesco Musotto, esponente di Forza Italia, dopo l’assoluzione in primo grado (poi confermata in appello e in cassazione) dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.
Uno di quei giudici era Piergiorgio Morosini, una «toga rossa» appartenente a Magistratura democratica come l’allora capo della Procura (che aveva fatto arrestare Musotto e chiesto la condanna) Gian Carlo Caselli. Lo stesso accadde con il magistrato Corrado Carnevale, «l’ammazzasentenze» imputato dello stesso reato.
Anni dopo Morosini prosciolse un imprenditore che aveva mentito negando le minacce e le estorsioni mafiose, giustificandolo per «lo stato di necessità» provocato dai timori di ritorsioni, attirandosi le critiche del procuratore dell’epoca, Pietro Grasso.
Naturalmente ci sono state anche le condanne, ai mafiosi come ad altri politici accusati di complicità con Cosa nostra (il democristiano Francesco Gorgone), e i verdetti ribaltati nei gradi successivi: per esempio l’assoluzione della professoressa che fece scrivere allo studente «sono un deficiente» per cento volte sul suo quaderno.
Ma questa è solo l’attività professionale del giudice Morosini, 52 anni, originario della riviera romagnola ma palermitano da oltre un ventennio: sbarcò in Sicilia durante la «riscossa giudiziaria» seguita alle stragi del ‘92, dopo un periodo di uditorato alla Procura di Roma, e non se n’è più andato.
Poi c’è l’attività «politica» di un magistrato che ha sempre militato in Md fino a diventarne segretario, carica che lasciò quando fu chiamato a decidere il destino degli imputati per la presunta trattativa fra lo Stato e la mafia (uno lo ricusò per un libro sui rapporti tra Cosa nostra e le istituzioni nel quale avrebbe anticipato il giudizio, ma senza successo: la Cassazione disse che non era vero).
Morosini si dimise da segretario delle «toghe rosse» per la mole di lavoro che si trovò davanti, ma anche per non dare etichette alla scelta che avrebbe fatto. Optò per il rinvio a giudizio di tutti gli accusati, dopo un’integrazione d’indagine e stilando un puntiglioso elenco delle «fonti di prova» tralasciato dalla Procura.
Al Foglio avrebbe detto che su quella vicenda «i pm non hanno osato abbastanza, certi filoni dell’inchiesta non sono stati approfonditi», ma lui smentisce. Quella frase come le altre. «Quando ho voluto prendere posizioni anche scomode — ha spiegato ieri ai colleghi del Csm —, attraverso interviste e interventi scritti, l’ho fatto con chiarezza e assumendomene tutte le responsabilità; ma stavolta non è andata così».
Il «colloquio informale» con la giornalista s’è trasformato in una «presunta intervista» piena di «affermazioni mai fatte». Questo ha detto in plenum Morosini, per spiegare ai consiglieri ciò che era successo. In privato, a chi conoscendolo e stimandolo gli chiedeva chiarimenti, ha confessato di essere caduto in una trappola, ammettendo un po’ d’ingenuità.
Confermando però che il suo pensiero e le sue parole, «mai pronunciate o riportate in parte, fuori contesto, sono state travisate». Le posizioni «scomode» rivendicate dal consigliere finito sulla graticola si riferiscono alla difesa del presidente dell’Anm Davigo, a dispetto delle prese di distanza di Area, il suo gruppo.
P. Davigo a Radio2 Un Giorno da Pecora
E poi il «no» al referendum costituzionale, appoggiato espressamente da Md ma non da Area. Un raggruppamento nel quale Morosini sostiene posizioni distinte da altre, che dentro al Csm (e dentro la pattuglia di Area) rappresentano una minoranza. S’è visto quando, con il compagno di corrente Lucio Aschettino, non ha votato per la nomina del primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio, ritenendola non conforme alle regole che s’è dato il Csm;
o quando ha redatto il parere sulla legge anticorruzione del governo Renzi con diversi accenti critici («sporadici e frammentari interventi» che diventano «insufficienti per la loro disorganizzati», aveva scritto), che provocarono le ire del Partito democratico.
Com’è accaduto ieri. In sintesi si potrebbe dire che Morosini rappresenta l’anima della sinistra giudiziaria contraria al «Partito della nazione», o al «patto del Nazareno»; e forse anche da qui è nata la «presunta intervista» al Foglio.
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