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Aldo Cazzullo per il "Corriere della Sera"
Solo un Paese rivolto all'indietro poteva l'anno scorso vedere nella bomba di Brindisi lo spettro della strage di Capaci, negli spari dell'altro ieri un ritorno agli Anni 70, e ora nell'insediamento del governo la riesumazione della Dc.
Enrico Letta ha presentato alla Camera un Paese proiettato in avanti, disposto non a dimenticare ma ad accantonare le divisioni degli ultimi vent'anni, concentrato sui «giovani» - la parola più pronunciata: 15 volte - e imperniato su un nuovo centro: ovviamente non lo schieramento sconfitto alle elezioni, ma il luogo da dove si governa l'Italia e da dove oggi se ne può affrontare la crisi.
Letta ha declinato il primo discorso da premier al futuro; un futuro che non è necessariamente peggiore del presente, che non coincide con la sorte, che dipende soprattutto da noi. Ha riconosciuto i meriti di Monti nel riportare sotto controllo il bilancio pubblico; ma ha puntato sul cambiamento, la discontinuità , l'innovazione.
Ha evitato certo temi scottanti per l'alleanza che lo sostiene (giustizia, conflitto d'interessi); però ha promesso di parlare il «linguaggio sovversivo della verità ». Senza negare il dramma della disoccupazione, ma puntando sulla fiducia, sulla possibilità di liberare energie, sul potenziale dell'Italia in un mondo in cui «molti vogliono bagnarsi nei nostri mari, visitare le nostre città , mangiare e vestire italiano».
Cultura, arte, bellezza, turismo: «L'Italia deve fare l'Italia», come ha sintetizzato replicando alle critiche delle opposizioni. I parlamentari erano concentrati soprattutto sul tema della durata del governo. Letta si è dato un orizzonte di 18 mesi, fissando per fine 2014 una verifica sulle riforme istituzionali: «Se avrò una ragionevole certezza che la revisione della Costituzione potrà avere successo, allora il nostro lavoro potrà continuare.
In caso contrario, se veti e incertezze dovessero minacciare di impantanare tutto per l'ennesima volta, non avrei esitazioni a trarne immediatamente le conseguenze», cioè a dimettersi e a provocare elezioni anticipate. Un anno e mezzo, nella politica italiana di oggi, sono un tempo lungo, con gli esclusi del Pdl che già mugugnano - «i nostri ministri sono tutti uomini di Alfano», «Letta ha scelto tra quelli che hanno lasciato Berlusconi, come Mauro, o stavano per farlo, come Lupi e Quagliariello» - e i renziani che già scalpitano, insieme con l'ala sinistra del Pd.
Ma il programma esposto ieri da Letta è da governo di legislatura: «Non mi interessa sopravvivere, vivacchiare a tutti i costi. Mi interessa uscire dall'interminabile agonia della Seconda Repubblica ed entrare davvero nella Terza».
Come ogni discorso di insediamento, anche il suo conteneva brevi cenni dell'universo, compresa «la valorizzazione delle eccellenze enogastronomiche» temperata dalla «lotta all'obesità ». Soprattutto, Letta non ha spiegato come troverà le risorse per bloccare fin da giugno il pagamento dell'Imu ed evitare l'aumento dell'Iva. Ma ha affrontato con ottimismo uno dei temi oggi più impopolari: l'Europa. Ha parlato del sogno della sua generazione, cominciato con l'immagine di Mitterrand e Kohl mano nella mano davanti alle croci di Verdun, e coltivato con l'Interail, con l'Erasmus, con i voli low cost.
«L'Europa è il nostro viaggio», che già oggi pomeriggio, incassata la fiducia al Senato, lo porterà a Berlino dalla Merkel, poi a Parigi da Hollande e a Bruxelles da Barroso, presidente della commissione europea, che secondo Letta «dovrebbe essere eletto direttamente dal popolo».
Pochissime le citazioni: il presidente Napolitano; Bersani e il «senso antico della parola lealtà »; Draghi; papa Francesco e la necessità di «scommettere su cose grandi»; il brigadiere Giangrande; il suo maestro Nino Andreatta, che gli ha insegnato a distinguere tra la politica, che divide destra e sinistra, e le politiche, su cui le fazioni possono trovare punti comuni.
Ad esempio il piano quadriennale per la ricerca, da finanziare con i «project bond», titoli di Stato legati al progetto. E il sostegno alle giovani donne, nel Paese al mondo che fa meno figli: una «ferita morale», una «generazione scomparsa».
Ha suscitato ironie l'immagine biblica con cui Letta ha chiuso, paragonandosi a Davide contro Golia. Ma è davvero un nano oggi la politica, sovrastata dalla perdita di sovranità a favore dei mercati e del mondo globale, assediata da un'opinione pubblica ostile che neppure una grande coalizione riesce davvero a rappresentare.
Letta si è voltato ora a destra, per annunciare il ridimensionamento dei poteri di Equitalia, ora a sinistra, per promettere di rifinanziare gli ammortizzatori sociali, e pure verso i grillini, che l'hanno applaudito quando ha parlato del reddito minimo per le famiglie numerose e in particolare quando si è giocato la carta a sorpresa: l'abolizione della legge per il finanziamento pubblico ai partiti, da sostituire con sconti fiscali ai privati.
Ma sarà soprattutto nel Paese che il nuovo presidente del Consiglio dovrà cercare appoggi. Il suo non è stato il discorso di un leader carismatico; del resto non può essere un uomo di carisma a guidare una grande coalizione, che tende per natura a convergere al centro, a tagliare le ali e gli elementi divisivi, a coinvolgere persone della stessa generazione, che si conoscono tra loro, che frequentano gli stessi ambienti, che condividono talora i valori del cattolicesimo e del moderatismo.
E Golia non ha tanto il volto di Berlusconi, o di Renzi, o del «reggente» che il Pd vuole ancorato a sinistra o comunque a una linea diversa da quella del premier, come fu D'Alema per Prodi e Veltroni per D'Alema. Golia è «l'autocommiserazione» di un Paese che non crede più in se stesso, «la sfiducia» dei suoi giovani che non credono nel futuro. Letta potrà durare solo se li convincerà di essere davvero dalla loro parte.
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