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Rita Querzé per il Corriere della Sera
«Mi rendo conto, si tratta di una scelta che rischia di farci apparire arroganti. Ma come possiamo affidarci alla giustizia italiana? I tribunali qui fissano udienze al 2018, 2019. Non possiamo permettercelo». A parlare è Michael McIlwrath, responsabile del contenzioso per General Electric Oil and Gas, la multinazionale che nei primi anni 90 ha acquisito il Nuovo Pignone. Quando in un contratto si tratta di fissare il foro competente in caso di controversie, GE non ha dubbi: meglio l'estero.
E come lei fan tutte. Quella che per le multinazionali ieri era solo una scelta frequente, ora è diventata una prassi. Ottima Londra. Benissimo Ginevra. Ben venga Vienna. Per l'arbitrato sempre più aziende puntano sulla nuova piazza di Singapore. Le multinazionali tedesche accettano Parigi. L'importante è che il foro competente in caso di contenzioso non sia in Italia.
A taccuino chiuso le multinazionali parlano ancora più chiaro: «La vostra è una giustizia da terzo mondo. Già avete un fisco impossibile, una burocrazia che è un rompicapo. Se possiamo evitare i vostri tribunali, lo facciamo volentieri». Le implicazioni per le controparti sono pesanti. Spesso si tratta di piccole-medie imprese che non possono permettersi l'onere economico e burocratico di una difesa in un tribunale straniero.
«Con la crisi sopravvive solo chi lavora con l'estero. Di conseguenza negli ultimi anni il problema è diventato più evidente - conferma Paolo Galassi, presidente di Confapi Industria -. Le grandi imprese italiane non esistono più. E le poche sopravvissute fanno esattamente come gli stranieri: quando si tratta di litigare, ci chiedono di andare all'estero».
La difficoltà nella gestione del contenzioso tra piccoli e grandi risulta più evidente anche per un altro motivo: le liti aumentano, in generale. «Tre gradi di giudizio, lustri che passano senza un esito definitivo. Il foro italiano è evitato dagli stranieri? Mi stupirei del contrario - taglia corto Maricla Pennesi, vice presidente del comitato politiche legali della Camera di commercio americana in Italia -. Molto più logico scegliere Londra, la Svizzera, Parigi o Vienna».
Capita anche che due imprese vincolate da un contratto particolarmente delicato preferiscano un foro neutro di una nazionalità terza. «Non mi risulta che l'Italia venga mai scelta come foro terzo. Una cartina di tornasole della nostra debolezza - aggiunge Vittorio Noseda, partner dello studio NCTM di Milano -. E' vero, appena possono gli stranieri optano per un giudice estero. Il nostro vero limite, più che l'affidabilità delle sentenze, sono i tempi della giustizia».
In tutto questo, per fortuna c'è un'esperienza positiva da cui ripartire. Quella della Camera arbitrale presso la Camera di Commercio di Milano. L'unica vera camera arbitrale internazionale in Italia con una sessantina di contenziosi «sbrigati» ogni anno.
«Siamo orgogliosi della credibilità che abbiamo conquistato presso le imprese - dice il segretario generale Stefano Azzali -. Certo, si tratta di un lavoro che abbiamo fatto in solitudine. E pensare che quando la Camera arbitrale di Parigi, un paio d'anni fa, era pronta a traslocare a Vienna il governo francese fece carte false per trattenerla...».
Dirimere in Italia il contenzioso tra impresa vorrebbe dire centrare tre obiettivi in un colpo solo. Rendere la vita più facile alle aziende di casa. Portare stranieri (e quindi affari) sul proprio territorio. Creare lavoro per avvocati, traduttori, stenotipisti. Ma il sistema Paese ancora non pare averlo capito.
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