DEMOCRAZIA AMERICANA: ARTICOLO QUINTO, CHI HA I SOLDI HA VINTO - ANCHE OBAMA ACCETTERÀ LA CORRUZIONE LEGALIZZATA DEI “SUPER PAC”, BUCHI NERI DELLE CAMPAGNE ELETTORALI DOVE LE CORPORATION RIVERSANO MILIONI SENZA DOVER PUBBLICARE CHI E QUANTO HA DONATO - “SIAMO CONTRARI, MA DOBBIAMO LOTTARE AD ARMI PARI”. PER RAGGIUNGERE IL MILIARDO DI DOLLARI CHE SERVE A TENERE LA CASA BIANCA - L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DI ROMNEY RILANCIA SANTORUM, CHE FA TRIS NEL MIDWEST (MA NON CAMBIA GLI EQUILIBRI REPUBBLICANI)…

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1- LA GUERRA DEI MILIARDARI OBAMA RISPONDE AI RICCONI REPUBBLICANI
Paolo Mastrolilli per "la Stampa"

La corsa alla Casa Bianca si sta trasformando in una sfida tra miliardari. Da una parte, il club dei ricchi riunito in California durante lo scorso fine settimana dai fratelli petrolieri Charles e David Koch, che si sono impegnati a staccare assegni per cento milioni di dollari allo scopo di sconfiggere Barack Obama. Dall'altra Warren Buffett, i magnati dell'industria digitale della California, e forse ancora George Soros, che da oggi in poi avranno mano libera per donare tutti i soldi che vogliono ai Super Pacs del presidente, i comitati esterni alle campagne dei candidati che possono raccogliere somme illimitate per appoggiarli.

Le elezioni americane si finanziano in due modi: i soldi offerti dagli individui o dalle aziende direttamente ai candidati, che però hanno un limite massimo di 2.500 dollari a persona; e i contributi dati ai Political Action Committee, ossia i comitati esterni che non possono coordinarsi ufficialmente con le campagne, ma possono appoggiarle pagando spot televisivi e altre iniziative in sostegno dei loro programmi.

Sul primo fronte Obama è nettamente in vantaggio, anche se ha appena subito l'imbarazzo di dover restituire duecento mila dollari ricevuti dalla famiglia del re dei casinò e fuggitivo messicano Pepe Cardona. Nel corso del 2011 ha raccolto 125 milioni di dollari, contro i 56 milioni del probabile avversario repubblicano Mitt Romney.

Sul secondo fronte, però, il Gop è decisamente avanti. Alla fine di dicembre Priorities USA Action, il Super Pac fondato dai due ex consiglieri di Obama Bill Burton e Sean Sweeney, aveva racimolato appena 4,4 milioni di dollari, contro i 30 milioni finiti nella cassaforte di Restore our Future, il Super Pac di Romney che in Florida ha speso 17 milioni di dollari in spot televisivi negativi per demolire Newt Gingrich.

Nello stesso tempo American Crossroads e Crossroads GPS, organizzazioni fondate dall'ex consigliere di Bush Karl Rove, hanno raccolto 51 milioni di dollari, mentre durante il fine settimana un gruppo di miliardari riunito in California dai fratelli petrolieri Charles e David Koch si è impegnato a stanziare cento milioni per battere Obama.

Lo scarso successo dei democratici in questo campo è dipeso principalmente da due fattori: l'opposizione dichiarata del presidente ai Super Pac, definiti come una minaccia per la democrazia dopo la sentenza del 2010 con cui la Corte Suprema ha tolto ogni limite al loro utilizzo, e le critiche a Wall Street che hanno allontanato parecchi finanziatori. I democratici vedono i piccoli contributi individuali come una lecita espressione di sostegno politico, e i grandi assegni delle corporation come una presa del potere attraverso i soldi. Davanti alla voragine che si stava aprendo, però, Obama ha dovuto cambiare posizione.

Le stime prevedevano che i democratici spenderanno circa un miliardo di dollari per conservare la Casa Bianca, ma questo vantaggio economico sta sfumando a causa dei Super Pacs repubblicani. Allora il capo della campagna, Jim Messina, ha mandato una mail ai sostenitori invitandoli a finanziare il Super Pac del presidente: «Restiamo contrari - ha detto Messina - e faremo il possibile per regolare questi contributi, ma nel frattempo non possiamo combattere con una mano legata dietro la schiena. I democratici non accetteranno di competere con due regole diverse e non disarmeranno unilateralmente». I repubblicani hanno subito attaccato la decisione, dicendo che il dietrofront dimostra come Obama sia pronto a tutto pur di vincere.

L'altro fronte su cui la Casa Bianca sta meditando il compromesso è quello della contraccezione. Nelle settimane scorse l'amministrazione ha deciso che tutti i datori di lavoro devono includere nelle assicurazioni sanitarie dei dipendenti il pagamento delle pratiche anticoncezionali.

Questo ha scatenato la reazione dei vescovi americani, e ora quella di gruppi come la Catholic League, che minaccia di organizzare proteste di piazza e mobilitare i 70 milioni di cattolici per battere Obama a novembre. Si tratta di un gruppo di «swing voters» fondamentale, che nel 2008 aveva votato in maggioranza per Barack. Quindi Axelrod sta correndo ai ripari, segnalando la disponibilità ad un compromesso che rispetti i diritti delle donne e la coscienza dei fedeli.


2- L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DI ROMNEY RILANCIA SANTORUM, CHE FA TRIS
Pier Paolo Bozzano per America24.com

Tra i due litiganti, Mitt Romney e Newt Gingrich, questa notte è spuntato di nuovo Rick Santorum. Ha vinto i caucus in tutti e tre gli Stati chiamati a votare: in Missouri, in Minnesota e a sorpresa anche in Colorado, dove Romney era strafavorito. Il voto ha rimescolato ancora una volta le carte nella pazza corsa alla nomination repubblicana. E' l'ennesima capriola di una competizione, quella che dovrà nominare lo sfidante di Barack Obama alle delicatissime elezioni presidenziali di novembre, che ogni settimana sembra ricominciare da capo, su nuove premesse, con nuovi equilibri e, a turno, un nuovo protagonista.

Se Santorum, un ultraconservatore e un beniamino della destra evangelica, parla di vittoria del conservatorismo, la sua tripletta si spiega soprattutto con la sorprendente, surreale debacle dei suoi avversari. Di Romney che in Minnesota e Colorado aveva stravinto quattro anni fa battendo il candidato repubblicano in pectore John McCain e che arrivava da due vittorie nette in Florida e Nevada. E di Gingrich che non ha neppure fatto il rituale discorso di fronti alle telecamere nella sera del voto. E' stato di fatto assente.

Santorum, intendiamoci, ha lavorato sodo, ha fatto campagna elettorale per 22 giorni nei tre stati contro un totale di 12 giorni complessivi dei suoi avversari, Ron Paul incluso. E ha sfruttato la forte presenza di elettori evangelici. Ma il suo trionfo è soprattutto sintomo della grande sconfitta di Romney che dopo mesi di campagna elettorale non è ancora riuscito a convincere la base repubblicama a fidarsi di lui. Ancora ancora in Minnesota, ma il suo crollo in Colorado è difficile da spiegare. Romney ci ha provato con il maltempo, nel suo intervento, sottolineando la scarsa partecipazione al voto. La realtà è più complessa: l'entusiasmo dei repubblicani per lui, il frontrunner, e in generale per la sfida presidenziale è per il momento scarso.

Colpa della sua battutaccia sui poveri, che, dice, non lo preoccupano affatto perché il governo li assiste? O colpa dei sondaggi che all'improvviso lo vedono in difficoltà in un ipotetico confronto con Obama? Colpa degli attacchi alla sua credibilità che Gingrich e Santorum gli fanno da settimane? Del suo carattere troppo freddo, distaccato? Del suo passato da repubblicano 'liberal' del nord est che non piace ai teapartisti? Se nei grandi Stati come la Florida e il Nevada Romney può sfruttare la potenza di fuoco della sua macchina elettorale e inondare gli elettori di spot per trovare consensi, quando si tratta di mobilitare gli insider repubblicani alle assemble dei caucus, allora fa quasi sempre cilecca.

La consolazione, per lui, è che i caucus di questa notte non hanno di fatto modificato il pallottoliere dei delegati. Romney resta davanti con 106, poi Gingrich con 37, quindi Santorum a 22 e Paul a 19. D'ora in poi, inoltre, la campagna elettorale diventa proibitiva senza una montagna di soldi e una capillare organizzazione sul territorio. E lui è l'unico ad averla.

Morale: tutto cambia ma alla fine non cambia nulla. Quasi nulla: Gingrich è ormai di fatto uscito di scena e Santorum si sveglierà con i bombardieri della campagna di Romney a ronzargli sulla testa, pronti a colpire in vista dei nuovi Stati che andranno al voto a fine febbraio.

 

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