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Federico Rampini per "la Repubblica"
«L'America sostiene con forza la conservazione delle tradizioni religiose, culturali e linguistiche del Tibet, e la protezione dei diritti umani dei tibetani nella Repubblica Popolare cinese». Barack Obama non lesina il suo appoggio al Dalai Lama, e lo riceve alla Casa Bianca mandando su tutte le furie il governo di Pechino. Durissime le reazioni che arrivano dalla Cina a una velocità -record: il comunicato di condanna da Pechino è sulle agenzie stampa del mondo intero due ore prima che l'incontro sia effettivamente iniziato.
E la reazione contribuisce a sottolineare un divario di sensibilità . In America il Dalai Lama è ormai un ospite familiare, Obama lo deve "strappare" per mezza giornata a molteplici altri impegni: dalle sedute di meditazione buddista alle conferenze per imprenditori e top manager nella Silicon Valley. à una star, è un padre spirituale rispettato negli ambienti più disparati, ma il suo soggiorno negli Stati Uniti è ormai quasi routine.
à in Cina che viene montato un "caso", rivelando ancora una volta i nervi a fior di pelle della nomenclatura comunista di fronte al leader tibetano in esilio dal 1959. Eppure Obama e il Dalai Lama fanno tutto il possibile per non urtare le suscettibilità cinesi. Il comunicato della Casa Bianca al termine del loro colloquio sottolinea che il presidente «elogia l'impegno del Dalai Lama per la pace e la non violenza; incoraggia il dialogo diretto (tra il leader in esilio e il governo cinese, ndr) per risolvere le differenze ».
Infine c'è la consueta precisazione: gli Stati Uniti riconoscono che il Tibet «è parte della Repubblica Popolare cinese», così come peraltro fa da molti anni il Dalai Lama il quale «non persegue l'indipendenza ». Sempre per evitare di infiammare gli animi, il leader spirituale buddista al termine dell'incontro se ne va in silenzio, non parla neppure con i giornalisti. Tante cautele, tante rassicurazioni, sono inutili: per il governo di Pechino, nel duro avvertimento emesso prima ancora dell'incontro, quel colloquio alla Casa Bianca «infligge gravi danni alle relazioni tra Stati Uniti e Cina».
Seguono le consuete accuse a Washington: accogliendo il capo tibetano, Obama «gli consente di strumentalizzare la Casa Bianca per promuovere attività anti-cinesi». Hua Chunying, portavoce del ministero degli Esteri a Pechino, rincara la dose accusando gli Stati Uniti di «pesante interferenza nella politica interna cinese; grave violazione dei principi che regolano le relazioni internazionali».
à un film che si ripete, siamo ormai al terzo remake solo dall'inizio della presidenza Obama. Ogni volta la Casa Bianca è attenta a non dare all'incontro lo stesso status di un summit con un capo di Stato straniero: l'incontro è sempre nella Map Room (la sala delle carte geografiche) anziché nello Studio Ovale che è l'ufficio operativo del presidente.
I toni aspri della reazione cinese vengono interpretati alla luce di due evoluzioni: da una parte Pechino non è riuscita a soggiogare le proteste dei tibetani dai moti del 2008 ad oggi; d'altra parte le tensioni geostrategiche Cina-Usa sono in aumento in tutto l'Estremo Oriente, dopo che le pretese territoriali di Pechino hanno messo in allarme molti vicini, dal Giappone alle Filippine al Vietnam.
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