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Francesco Grignetti per "La Stampa"
Il penultimo avviso era arrivato con la visita del presidente Obama a Roma, nel marzo scorso. Anche quella volta il Presidente degli Stati Uniti richiamò tutti, pubblicamente e poi in privato, a spendere di più per le forze armate. L’ultimo avviso è arrivato ieri. Un martellamento.
Già, perché gli analisti americani sono preoccupatissimi di come gli europei, e segnatamente gli italiani, stanno affrontando la questione militare. Ci vedono troppo spensierati sul tema e invece essi ritengono che si sia alla vigilia di una nuova impresa militare da far tremare i polsi: la Libia.
Lungi dal temere davvero un’escalation di Putin in Ucraina, è la Libia del dopo-Gheddafi che spaventa Washington. Tripoli non trova pace, infatti. Le ultime notizie dal fronte parlano di scontri sanguinosi a Bengasi, di 20 morti solo ieri, di islamisti asserragliati nella «loro» città e dei soldati del generale Haftar all’attacco.
LIBIA OCCUPATO L AEROPORTO DI TRIPOLI
La spallata del generale, che quindici giorni fa ha chiamato le ultime truppe regolari e i clan all’unità contro i «terroristi», ossia gli islamisti che hanno combattuto Gheddafi e subito dopo si sono rivoltati contro i gruppi tradizionali, stenta a dare frutti. Inutile dire che a Washington, come al Cairo, si parteggia per lui. C’è anzi chi considera il generale come una creatura degli Stati Uniti in tutto e per tutto.
LIBIA OCCUPATO L AEROPORTO DI TRIPOLI
Come che sia, il tentativo di risolvere il caos libico con le armi non sta funzionando. Proprio ieri uno dei principali alleati del generale Haftar, il capo delle guardie libiche a tutela dei siti sensibili, Azmy Al-Borghothy, è stato assassinato a Bengasi per essersi unito alle forze fedeli al leader dall’autoproclamato «Consiglio supremo militare».
Altri confusi episodi si registrano a Tripoli: un convoglio che trasportava il capo di stato maggiore dell’esercito, il generale Abdel Salam al Obeidi, è stato attaccato e la scorta ha risposto al fuoco costringendo gli aggressori alla fuga. Da ieri, poi, ci sono in carica due premier in lotta tra loro. Infine c’è un Parlamento egemonizzato dagli islamisti, dove i liberali per protesta non partecipano ai lavori, e che il generale Haftar ha già dichiarato «sciolto».
In questo quadro convulso, le intelligence occidentali sfornano bollettini sempre più pessimistici. «Non si procede alla giornata, quanto al minuto», dice una fonte italiana. Pessimismo che ormai è condiviso di qua e di là dell’Atlantico. E la conseguenza logica non può che essere una sola: se i libici non riescono a uscirne da soli, occorrerà un intervento straniero per stabilizzare un Paese che è fondamentale per lo scacchiere, per controllare i flussi energetici e quelli migratori verso l’Europa.
Di qui l’invito sempre più rude agli europei che s’alza da Washington: «Non contate su di noi. La Libia si trova a 350 chilometri dalle vostre coste, siete voi a dipendere dal suo petrolio e dal suo gas; starà a voi occuparvene. Ma se non investite fin d’ora sulle vostre forze armate, come farete?».
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