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Paolo Mastrolilli per “la Stampa”
Costruire, in fretta, una coalizione internazionale per sconfiggere l’Isis. Sta diventando questo l’obiettivo degli Stati Uniti, ma con un nodo centrale irrisolto: cosa fare con Assad? Coinvolgerlo nell’operazione, o continuare ad isolarlo?
Finora la strategia americana era stata quella di contenere lo Stato Islamico, sottovalutando forse le sue dimensioni e le sue capacità. L’avanzata in Iraq e la decapitazione di James Foley, però, hanno dimostrato che non basta.
Il segretario alla Difesa Hagel ha detto che l’Isis «va oltre qualunque cosa vista finora», perché è una forza solida, piena di elementi occidentali, che minaccia insieme la stabilità del Medio Oriente, e la sicurezza interna di Usa ed Europa. Il capo degli Stati Maggiori Riuniti, Dempsey, ha ammesso che «può essere contenuta, ma non perpetuamente. Questa organizzazione ha una strategia apocalittica e va sconfitta. Possiamo batterla senza affrontare la parte che risiede in Siria? La risposta è no».
Un anno fa, dopo l’attacco chimico di Ghouta, l’intervento contro Assad era stato escluso anche per il timore che aiutasse proprio questi gruppi jihadisti, e gli eventi degli ultimi mesi hanno dimostrato che la preoccupazione era giusta. Ma secondo il generale Lord Dannatt, allora capo dell’esercito britannico, è venuto il momento di trarre le conseguenze di questa realtà e rovesciare la strategia, parlando con Assad quanto meno per ottenere l’autorizzazione ad attaccare l’Isis in Siria, secondo la logica che il nemico del mio nemico è mio amico.
Una bozza di strategia complessiva l’ha offerta Zalmay Khalilzad, che durante l’amministrazione Bush era stato ambasciatore in Afghanistan, Iraq e Onu. Lui suggerisce un piano in cinque punti. Primo, mobilitare consistenti aiuti umanitari, per dare alle popolazioni delle zone prese di mira dall’Isis una buona ragione per abbandonarlo e scegliere invece l’Occidente. Secondo, promuovere intese per unificare i gruppi anti-Isis in Iraq e in Siria. Questo significa spingere il nuovo premier iracheno Haider al Abadi a varare un governo davvero inclusivo, che dia garanzie a curdi e sunniti.
Lo schema sullo sfondo resta quello adottato dal generale Petraeus con il suo piano chiamato «Anbar Awakening», che era riuscito a staccare le tribù sunnite dai jihadisti. Terzo, lanciare robuste operazioni militari, un po’ sul modello di quanto venne fatto in Afghanistan per rovesciare i taleban, con gli Usa che avevano fornito supporto aereo, intelligence e forze speciali ai signori della guerra che avanzavano sul terreno.
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Quarto, internazionalizzare la campagna, perché per avere successo serve l’aiuto degli europei, ma anche dei Paesi della regione. Arabia e Qatar devono fermare i finanziamenti, la Turchia deve chiudere le sue frontiere ai jihadisti, l’Iran deve incoraggiare lo sciita Abadi a condividere davvero il potere con i sunniti.
In Siria, invece di dialogare con Assad, Khalilzad suggerisce di armare e sostenere sul serio l’opposizione moderata che vuole combattere l’Isis. Il quinto punto è quello politicamente più difficile per Obama: preparare gli americani a una campagna lunga e costosa, perché sognare il disimpegno è stato bello, ma se non vogliono rivedere l’11 settembre bisogna debellare l’Isis, non contenerlo.
Khalilzad viene dall’amministrazione che secondo quella attuale ha commesso gli errori da cui è nata la crisi, ma lo stesso Hagel ha detto che «tutte le opzioni» sono sul tavolo. Obama di sicuro non vuole rimettere i soldati americani sul terreno in maniera permanente, ma sa che l’Isis va fermato, con l’aiuto di tutti. Il mese prossimo all’Onu presiederà una riunione proprio per discutere le risposte al terrorismo, e per allora la nuova strategia potrebbe già essere definita.
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