DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Giovanni Bianconi per "Il Corriere della Sera"
Un attentato terroristico, ideato secondo gli schemi della vecchia «strategia della tensione» e realizzato ispirandosi alle azioni dei narcotrafficanti colombiani. à l'ultima ipotesi giudiziaria sulla strage di Capaci messa nero su bianco dal giudice che se n'è occupato nella tranche d'inchiesta ancora aperta.
Ventuno anni fa, il pomeriggio del 23 maggio 1992, un tratto dell'autostrada fra Palermo e l'aeroporto di Punta Raisi saltò in aria investendo il corteo di macchine che accompagnava in città Giovanni Falcone. Con il giudice antimafia morirono sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.
Per quella mattanza, il mese scorso, il giudice delle indagini preliminari di Caltanissetta Francesco Lauricella ha firmato otto ordini di arresto, su richiesta della Procura, per altrettanti nuovi indagati. Tutti accusati di strage con l'aggravante dei «fini terroristici». Ma il regista dell'attentato resta il «capo dei capi» Totò Riina.
E nelle motivazioni del suo provvedimento il giudice s'è lasciato andare ad ardite ipotesi dietro la scelta di utilizzare 500 chili di tritolo per eliminare Giovanni Falcone, invece dei già programmati colpi di rivoltella per le strade di Roma.
Il magistrato cita una strage di poliziotti avvenuta nell'aprile del 1990 a Medellìn, realizzata con «una potente autobomba esplosa al momento del passaggio di una pattuglia delle forze speciali antinarcotici»; nello stesso periodo in Colombia esplosero «ben 18 bombe che provocarono 93 morti e 40 feriti».
Avvenimenti clamorosi che, sostiene oggi il giudice, «ben poterono risvegliare nella "mente pensante" di Cosa nostra siciliana, ovvero in Totò Riina, l'idea di abbracciare la tecnica che del resto Cosa nostra aveva già utilizzato».
Nell'83 e nell'85 la mafia imbottì due autobombe per colpire i giudici Rocco Chinnici e Carlo Palermo, e secondo il magistrato «furono probabilmente proprio i gravi fatti dinamitardi internazionali, e non secondariamente gli accadimenti della guerra civile in Libano negli anni Ottanta, a influenzare il vertice di Cosa nostra nella decisione di introdurre anche in Sicilia la tecnica dinamitarda».
Del resto, aggiunge, i pentiti hanno raccontato che nel 1989, progettando l'attentato a Falcone nella villa dell'Addaura, «prima di optare per l'esplosivo si verificò la strada dell'utilizzo di razzi katiusha installati su un furgone», secondo una tecnica «tipica della lotta tra Libano e Israele».
Il giudice Lauricella ritiene che la strage di Capaci e quella di Medellìn dell'aprile '90 presentino «varie analogie», e conclude: «Il ricordo dell'eco dei fatti colombiani, cui la stampa siciliana non può non aver dato risalto, deve ritenersi un probabile fattore scatenante del revirement (improvviso mutamento, ndr) riiniano e della più recente opzione per la tattica dell'esplosivo».
Quanto ai paragoni con le stragi consumate in Italia tra il '69 e il '74, con le appendici di Bologna nel 1980 e del treno rapido 904 nel 1984, lo stesso magistrato ritiene che Riina abbia attinto a quelle vicende per «instaurare una strategia della tensione in modo da sfoderare i muscoli della potenza mafiosa, così da porla in stretto rapporto di confronto con lo Stato».
In sostanza, anche il gip di Caltanissetta aderisce all'idea che la bomba di Capaci costituì la premessa per la trattativa fra i boss e le istituzioni, instaurata «per il raggiungimento dei punti dettagliati nel cosiddetto "papello" presentato da Cosa nostra allo Stato».
Tuttavia, nell'accostare il terrorismo mafioso a quello di matrice politica, il giudice mette in luce una differenza fondamentale: «Mentre per il terrorismo il fine ultimo è quello dell'antistatalismo, al contrario per la mafia il fine ultimo è quello di uno "statalismo di comodo"... Sembra paradossale, ma la mafia, per potere operare, abbisogna di un apparato statale efficiente ma accondiscendente. La mafia, infatti, si giova dei meccanismi organizzativo-istituzionali efficienti, a patto però di poterli condizionare».
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