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Fabio Martini per "la Stampa"
Alle 18,38 nel salone del Consiglio dei ministri, i telefonini silenziati dei ministri cominciano ad illuminarsi, con un movimento dell'indice Angelino Alfano, Enrico Letta e anche altri, aprono e leggono: ricorso di Berlusconi bocciato. Qualche smorfia di malumore ma nessuno osa sgualcire l'aplomb del Consiglio, anche perché nelle orecchie di tutti ci sono ancora le parole pronunciate, prima della riunione, dal vicepremier e segretario del Pdl Alfano: «Qualunque sia la decisione, non ci saranno le dimissioni accennate da qualcuno».
Il segnale del «tana libera tutti» politico, dunque, era arrivato prima della sentenza e a quel punto Enrico Letta, prudente di suo, non ha faticato a chiudersi la bocca. Farà sapere soltanto che «le sentenze si rispettano, non si commentano», adagio un po' dismesso della vecchia politica, che Letta non ha mai tradito, a differenza di tanti suoi colleghi, non solo del Pdl.
La sentenza era nell'aria e dunque, oltre ad una pesantezza che si respirava a fine Consiglio (con i ministri Pdl tutti sinceramente dispiaciuti e riuniti in capannello nella sala adiacente a quella del Consiglio), alla fine il segno alla giornata lo dava il presidente del Consiglio: dopo aver salutato i suoi ministri, si è ritirato nel suo studio, ovviamente ha chiesto cosa se ne sapesse in più della sentenza, ma poi ha ostentatamente ripreso il suo lavoro: dossier, telefonate in vista del prossimo Cdm.
In linea col mantra che ieri Letta ha imposto ai suoi e che a questo punto può rappresentare la sua filosofia: «Con le fibrillazioni nella maggioranza dobbiamo convivere, continueranno perché c'è una discussione nei partiti sulle principali questioni, ma noi non abbiamo alternative: preparare provvedimenti e far parlare i fatti».
Certo, il presidente del Consiglio altro non può fare che tenere il profilo basso, un atteggiamento che d'altra parte si sposa perfettamente con la sua indole. E d'altra parte in questa vicenda e soprattutto in questa fase post-sentenza, il governo non dispone di armi proprie e dunque deve rimettersi agli umori di Berlusconi. Sempre che, agli occhi del Cavaliere, palazzo Chigi abbia fatto tutto il possibile per «influenzare» la sentenza.
Nel passato è sempre stato difficilissimo trovare prove certe circa interferenze dei partiti, del governo o del Quirinale su decisioni «sensibili» della Corte Costituzionale. Anche in questa circostanza non è stato possibile capire, se e come, il mondo politico abbia provato a condizionare una decisione così influente sulla stabilità del governo. Ma ora che il pericolo è passato, a Letta non resta che andare avanti con lo stesso passo.
Nei 50 giorni di governo, il premier seguendo la propria natura - è stato attentissimo a non irritare i due partner di maggioranza con atti o con parole che suonassero fuori tono. Cinquanta giorni vissuti con un profilo persino più basso di quello adottato dal primo Monti, che si lanciava in continui elogi per i partiti della sua «strana maggioranza», riservandosi però di pungerli con iniezioni di urticante ironia, tutte le volte che quelli provavano a criticarlo.
Certo, ogni giorno ha la sua pena e non per modo di dire. Il Cdm dedicato al lavoro, previsto per venerdì, è slittato a martedì, un rinvio motivato dalla partecipazione di Saccomanni all'Ecofin e che comunque consentirà di affinare il reperimento dei fondi.
E non sarà una passeggiata neanche il Consiglio europeo di fine giugno, dove Letta spera di poter tirare le reti della sua «predicazione» sulla disoccupazione. Ieri a Berlino la cancelliera Merkel è sembrata esprimere dubbi sull'impostazione, ritenuta dirigista, di Letta: «Il premier italiano ha spiegato ampiamente nel G8 cosa significa l'alta disoccupazione giovanile, ma dobbiamo essere capaci di continuare a produrre e vendere prodotti fuori dall'Ue in un mondo "dove il 90% della ricchezza viene prodotto fuori dall'Europa». E ancora: «Dobbiamo comunque lavorare per non vivere sulle spalle delle future generazioni».
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