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DAGOREPORT - SERVIZI E SERVIZIETTI: IL CASO ALMASRI E' UN “ATTACCO POLITICO” ALLA TRUMPIANA MELONI?…
1 - PER PARTIRE SERVONO 60MILA SOLDATI
Paolo Rastelli per il “Corriere della Sera”
L’ex primo ministro iracheno Nouri al Maliki l’ha definita senza mezzi termini «Terza guerra mondiale», visto che viene combattuta contro un’organizzazione, il Califfato di Al Baghdadi, che aspira al dominio universale. Maliki in quel momento (ottobre 2013) aveva tutto l’interesse a drammatizzare gli attacchi dell’Isis per avere il massimo dell’aiuto possibile. Ma certo la minaccia portata dallo Stato Islamico si sta allargando, producendo una risposta multinazionale i cui aderenti aumentano giorno per giorno.
Oggi si sono uniti gli egiziani, che dopo la decapitazione dei cristiani copti diffusa via video in tutto il mondo, hanno eseguito tre raid aerei in forze in Libia, aiutati anche da quel poco che rimane di aviazione libica rimasta fedele al governo di Tobruk, riconosciuto come legittimo dalla Comunità internazionale: secondo rapporti diffusi dallo stesso governo libico, una cinquantina di militanti dell’Isis sarebbero rimasti sul terreno anche se un effettivo controllo di queste cifre è allo stato impossibile.
Qualche giorno fa in Siria erano intervenuti gli F-16 (in generale il velivolo più diffuso nell’area mediterranea, in possesso anche dell’Aeronautica militare italiana) della Forze aeree reali giordane, in risposta all’immolazione del pilota Maaz al Kassasbeh, bruciato vivo in una gabbia. Sempre in Siria e Iraq hanno lanciato incursioni, in momenti diversi, aerei americani, australiani, britannici, francesi, sauditi, del Qatar e degli Emirati arabi.
La Libia non è raggiungibile agevolmente da tutte queste aviazioni, soprattutto da quelle degli Stati arabi del Golfo in assenza di basi più vicine all’obiettivo. Ma comunque sul nuovo fronte aperto dal califfato è ipotizzabile, se mai avverrà, l’impegno di una robusta coalizione, più o meno analoga a quella che aiutò i ribelli a rovesciare Gheddafi nel 2011: Francia, Gran Bretagna, Italia, Canada, Danimarca, Norvegia, Spagna, Emirati arabi uniti, Qatar, Egitto (che proprio ieri ha concluso con la Francia l’acquisto di altri 24 sofisticati caccia Rafale), con l’appoggio degli Stati Uniti, che può anche essere solo di Elint (informazioni elettroniche) con i velivoli Awacs e individuazione/illuminazione degli obiettivi.
Da questa lista si capisce che un eventuale intervento italiano (sul quale peraltro il presidente del Consiglio Matteo Renzi si è dimostrato per ora alquanto tiepido) non potrà che essere inquadrato in un’iniziativa Nato con il via libera dell’Onu.
l'isis avanza in libia. farnesina italiani rimpatriate b730e8b
Chiunque interverrà non potrà certo limitarsi ai raid aerei, per controllare un territorio ci vogliono, come dicono gli americani, i boots on the ground , gli stivali sul terreno: contro Gheddafi le forze di terra erano fornite dai ribelli, ma adesso dovranno essere mandate anche truppe europee. Quante? Secondo una stima prudente, dovendo bonificare e controllare un territorio vasto senza rilievi naturali importanti, almeno 60 mila uomini con equipaggiamento pesante: carri armati, elicotteri di attacco, mezzi trasporto truppe, genio.
Nel caso dell’Italia, non meno di una brigata corazzata o meccanizzata tipo Ariete o Garibaldi: due reggimenti di fanteria, uno di cavalleria corazzata, uno di carri armati, uno di artiglieria semovente, per un totale di almeno 7 mila soldati. Cosa troverebbero ad attenderli? Secondo un’analisi diffusa ieri dal Rid , Rivista italiana difesa, in Libia l’Isis ha un nucleo «duro» di 800 uomini (tra cui molti reduci del teatro siriano-iracheno) nell’area di Derna. A queste vanno aggiunte bande sparse, di consistenza incerta, nella Sirte e in Tripolitania, in parte scissioniste dalle milizie della Fratellanza musulmana. Per il momento l’armamento sarebbe leggero: mitragliatrici, razzi anticarro Rpg, mortai. Niente carri armati, per ora.
2 - “ENTRARE IN GUERRA È FACILE MA SI RISCHIA IL PANTANO” MINI: 5 MILA UOMINI? NE SERVIREBBERO 50 MILA
Francesco Grignetti per “la Stampa”
«Andare in Libia a fare la guerra è fin troppo facile. Una volta che ci fossimo infilati in quel pantano, però, difficile sarebbe uscirne. Guardate che cosa accade dopo 14 anni di Afghanistan».
Non è usuale sentire un generale del nostro esercito usare tanta freddezza nei confronti della guerra. Eppure Fabio Mini, che è stato il comandante della missione Nato in Kosovo, e capo di stato maggiore del Comando Nato delle forze alleate Sud Europa, non si nasconde dietro le parole.
MOLOTOV USATE DAI RIBELLI IN LIBIA
Generale Mini, perché intervenire in Libia sarebbe una missione tanto sbagliata?
«Perché ho sentito molta frettolosità nell’analisi del presente, e nessuna parola sul futuro. Per parafrasare un mio libro, diteci quale guerra verrebbe dopo la guerra. Spiegateci quale è la strategia complessiva. Parlare di “peace keeping” alla maniera libanese, non ha senso: non ci sono due fazioni che si affidano a noi per consolidare una tregua.
ARSENALE DEI TERRORISTI IN LIBIA jpeg
Fare come nel 2011 con i raid aerei, poi, lascerebbe le cose come stanno. Se proprio si deve controllare il territorio, in Libia ci sarebbe da combattere sul serio e non so se è chiaro che avremmo 50 morti nella prima settimana. Né si pensi che bastino 5 mila uomini, ce ne vorrebbero 50 mila e forse sarebbero ancora pochi».
L’alternativa sarebbe un’operazione alla kosovara o alla curda. Noi ci mettiamo potenza aerea e consiglieri militari, loro le forze di terra.
«Possibile. Ma allora ci devono dire chi sono gli alleati e chi no. Cioè quali fazioni appoggiamo e quali contrastiamo. Perché è evidente che l’Isis è soltanto una bandiera, e sotto ci sono le stesse milizie che prima pagavamo e che ora indossano la tuta nera perché da quelle parti è diventato un marchio vincente».
I jihadisti sembrano essere diventati i terzi incomodi tra due fazioni in rotta, gli islamici di Tripoli e i laici di Tobruk. Un intervento occidentale rischia di rompere gli equilibri e coalizzare tutti gli islamisti contro di noi?
«Appoggiando lo schieramento del generale Haftar, gli egiziani e gli americani avevano già provato a chiudere la partita con una spallata. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Egiziani e francesi, da quel che vedo, tentano ora una nuova spallata ma non penso che avranno successo neppure stavolta».
E allora, che fare?
«Innanzitutto andrei a rivedere quell’accordo di amicizia tra Italia e Libia che si firmò ai tempi di Berlusconi. Se un ampio spettro di forze libiche ci chiedessero aiuto... Ma abbandoniamo idiozie come l'esportazione della democrazia. Ipocrisia. Come quella che in questi anni ci fossero uno Stato, elezioni regolari, e governi legittimi. La Libia è terra di tribù, ciascuna con i suoi pozzi di petrolio. Se devo dirla tutta, converrebbe che gli equilibri locali si chiariscano da soli. Con un intervento occidentale ora, la crisi si internazionalizza e in prospettiva diventa ancora più ingestibile».
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