DAGOREPORT – AVVISATE IL GOVERNO MELONI: I GRANDI FONDI INTERNAZIONALI SONO SULLA SOGLIA PER USCIRE…
Federico Rampini per il “Corriere della Sera”
L'Ucraina presenta il conto a Xi Jinping. Non solo per lo choc energetico, l'inflazione, i rischi di penurie alimentari. La scelta del leader cinese di appoggiare l'aggressione di Vladimir Putin ora gli crea un danno anche sul versante geostrategico, e nel cortile di casa propria. Il viaggio di Joe Biden in Estremo Oriente produce due novità rilevanti. Il presidente americano abbandona decenni di «ambiguità strategica» e dichiara che interverrà militarmente a difendere Taiwan qualora l'isola venga invasa dalla Repubblica Popolare.
Inoltre lancia un nuovo patto economico con dodici nazioni asiatiche per contrastare l'influenza di Pechino. È un'America che vuole passare al contrattacco, oltre che in Europa anche nel quadrante dell'Indo-Pacifico dove si gioca il futuro del pianeta.
La questione di Taiwan va situata nella sua genesi storica. Nel 1949 si rifugiarono sull'isola i nazionalisti di Chiang Kai-shek, sconfitti dai comunisti di Mao Zedong nella guerra civile.
L'America allora fece una scelta politica gravida di conseguenze: riconobbe Taiwan come «unica Cina» e tagliò le relazioni diplomatiche con il governo di Pechino. Nel 1972 il disgelo tra il presidente repubblicano Richard Nixon e Mao costrinse a una scelta opposta: alla fine di quel decennio vennero ristabiliti i rapporti fra Washington e la Repubblica Popolare, un processo gravido di conseguenze sul futuro della globalizzazione. Il prezzo da pagare fu quello di riconoscere come «unica Cina» la Repubblica Popolare.
Per i comunisti Taiwan era dal 1949 ed è tuttora una «provincia ribelle», l'equivalente della Catalogna per la Spagna, da ricondurre sotto il controllo del governo centrale. Xi Jinping ha sempre espresso in modo esplicito, e con toni apertamente minacciosi, l'intento di riportare Taipei nella giurisdizione di Pechino. Gli sconfinamenti di cacciabombardieri cinesi sul cielo di Taiwan sono all'ordine del giorno. Un futuro alla Hong Kong, normalizzazione e repressione, attenderebbe l'isola.
Gli Stati Uniti pur senza riconoscere Taiwan come uno Stato, tuttavia hanno sempre protetto l'isola fornendole armi e anche visitandola di frequente con le proprie navi militari. Sotto l'ombrello americano è fiorita una liberaldemocrazia rispettosa dei diritti umani, e un'identità culturale distinta: sull'isola ci si sente sempre più taiwanesi e meno cinesi.
Non esiste un formale trattato di alleanza, però, dunque non c'è una garanzia di difesa automatica in caso di aggressione, nulla di comparabile alla Nato.
Eppure nessuno può sottovalutare l'importanza strategica di Taiwan. Con appena 24 milioni di abitanti, l'isola è una superpotenza tecnologica che produce il 60% di tutti i semiconduttori mondiali. È situata su un corridoio marittimo dove passano le rotte delle navi petroliere che trasportano greggio dal Golfo Persico a Cina, Corea, Giappone. Infine è l'unica liberaldemocrazia cinese sul pianeta.
Da quando hanno ristabilito le relazioni con Pechino alla fine degli anni Settanta, le amministrazioni Usa hanno ritenuto di dover mantenere un'ambiguità strategica: hanno detto ai successivi leader cinesi che l'America non ammetterebbe una soluzione del «problema Taiwan» affidata alla forza militare; hanno lasciato capire che l'America forse potrebbe intervenire in difesa dell'isola attaccata, ma non lo hanno mai annunciato in modo esplicito. L'unico impegno chiaro di Washington, sotto tutte le amministrazioni, era quello di fornire a Taipei le armi per difendersi; non necessariamente di combattere al suo fianco. Ora Biden compie un passo nuovo, traendo le conseguenze dall'Ucraina.
Sono le stesse conseguenze che hanno tratto i popoli e i governi di Svezia e Finlandia: gli autocrati capiscono e rispettano solo i rapporti di forza, se l'Ucraina fosse stata nella Nato Putin non si sarebbe azzardato a invaderla. Dunque è meglio chiarire fin d'ora a cosa andrebbe incontro Xi Jinping se lanciasse l'aggressione a Taiwan.
Non tutti a Washington condividono questa determinazione, perfino all'interno della squadra Biden. Questo presidente ha spesso anticipato e accelerato le svolte: fu lui a indurire i toni verso Putin, in seguito il capo del Pentagono lo assecondò annunciando l'obiettivo di indebolire la Russia. L'altro risultato della visita di Biden in Estremo Oriente è il rilancio di un'offensiva di tipo economico.
La Cina ha potenziato in modo formidabile la rete delle sue relazioni commerciali, finanziarie e tecnologiche con i Paesi dell'area. L'America «in ritirata dalla globalizzazione» aveva smesso da tempo di contrastare l'influenza cinese, perché l'epoca dei trattati di libero scambio è stata oggetto di una severa revisione critica: non solo dal protezionismo trumpiano ma anche da un neo-protezionismo di sinistra.
Ora Biden cerca un equilibrio difficile, rilanciare un'offensiva della seduzione nell'Indo-Pacifico senza risvegliare i timori della sua base operaia sulle delocalizzazioni. Non può spingersi fino a promettere un trattato che riduca in modo durevole dazi e barriere doganali, perché non avrebbe i numeri al Congresso per ratificarlo. La Casa Bianca ha però dei margini di manovra su altri terreni: la sicurezza delle catene produttive e logistiche, le protezioni contro lo spionaggio cinese, il commercio digitale, la sostenibilità, i diritti dei lavoratori.
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