DAGOREPORT - NON TUTTO IL TRUMP VIENE PER NUOCERE: L’APPROCCIO MUSCOLARE DEL TYCOON IN POLITICA…
1. UN CONTO E' PERDERE 60/40 UN CONTO E' 52/48
Laura Cesaretti per il Giornale
Il piano A è vincere il referendum, ovviamente. Difficile, avendo tutti contro, ma Matteo Renzi è convinto che non sia impossibile, perché «l'aria sta cambiando, lo si capisce anche dalle reazioni isteriche di Grillo e di altri capi del No».
Quanto ai piani B, su cui si interrogano ansiosamente tutti nel Palazzo, Renzi resta apparentemente indifferente: «Non sono il tipo che passa il suo tempo a pensare ai se e ai forse, prima si lavora per portare a casa il risultato e poi si deciderà». Di certo, se vincesse il No, «un attimo dopo» Renzi salirebbe al Colle a dare le dimissioni. E poi?
Tutto è appeso ad una variabile fondamentale perché, come spiega un renziano di primo piano, «un conto è perdere 52 a 48, tutt'altro è perdere 60 a 40». Nel primo caso, Renzi potrebbe decidere di accettare un reincarico per portare a termine la legge finanziaria e fare la legge elettorale.
A patto che «ci sia la volontà politica di farlo in tempi rapidissimi, visto che sarebbe l'unico punto programmatico», dicono i suoi, per poi andare a votare «in pochi mesi», al massimo in primavera. Nel secondo caso, invece, le dimissioni sarebbero irrevocabili, e «chi ha voluto affossare le riforme si prenda la responsabilità di trarne le conseguenze». E in casa renziana non si esclude l'ipotesi che Renzi, se la sconfitta fosse di proporzioni innegabili, lasci anche la guida del Pd.
Si dice che le parole del vicesegretario Pd Lorenzo Guerini, che immagina un governo «di scopo» breve per fare la legge elettorale e poi subito il voto, abbiano irritato il Quirinale. Da dove arriva un messaggio insistente a Palazzo Chigi: nessuno vuole elezioni anticipate, ed è possibile fare un governo con lo stesso premier, ma con l'appoggio di Forza Italia che Berlusconi avrebbe già assicurato a Mattarella, destinato a durare ben più di «pochi mesi». Una prospettiva che al Pd renziano non piace per nulla: «Sarebbe un governicchio di galleggiamento che logorerebbe l'immagine di Renzi, costringendolo a trattare la prossima finanziaria con Brunetta, e ingrasserebbe solo Grillo e Salvini».
CARLO CALENDA A CAPALBIO - foto Enzo Russo
Dunque, in caso di sconfitta al referendum, Renzi potrebbe accettare di tornare a Palazzo Chigi solo a patto di restare «virtualmente dimissionario», con la certezza di andare a votare appena fatta la legge elettorale, dopo la sentenza della Consulta. Nei corridoi circolano molte altre ipotesi: governi «tecnici» presieduti da attuali ministri come Padoan o Calenda, o governi «istituzionali» guidati dal presidente del Senato Piero Grasso.
Un'ipotesi, quest'ultima, che consentirebbe a Renzi di tenersi le mani libere e di trattare il nuovo esecutivo come un «governo amico» da cui prendere all'occorrenza le distanze, forte della propria massa d'urto in Parlamento. Ma in casa Pd si nutre scarsissima fiducia sulle capacità di governo di un ex magistrato proiettato quasi per caso da Bersani, all'indomani del disastro elettorale del 2013, alla presidenza del Senato, con l'obiettivo (ovviamente fallito) di guadagnarsi benevolenza dai Cinque Stelle. «Facciamo i conti ogni giorno con i problemi della gestione Grasso a Palazzo Madama. Come si può pensare di affidargli la complessa partita della legge elettorale, o il rinnovo delle nomine nelle aziende pubbliche?», si chiede un esponente democrat. Una cosa è certa: senza il via libera del Pd, nessun nuovo governo è possibile. Ma tutto dipende, comunque, dai numeri di un'eventuale sconfitta.
2. DUBBI DEL COLLE SULL'OPZIONE VOTO ANTICIPATO
Ugo Magri per la Stampa
Chi ha parlato ultimamente con il premier, prima e dopo il colloquio di ieri al Quirinale, esclude che possa restare al suo posto in caso di sconfitta, perfino se fosse solo per una manciata di voti. Renzi ne farebbe legittimamente una questione di orgoglio e di integrità della propria immagine, dunque le sue dimissioni sarebbero inevitabili, idem l' apertura formale di una crisi al buio. Che, come tutte le crisi di governo, avrebbe l' effetto di rendere protagonista il Capo dello Stato nel suo ruolo di arbitro.
Per Sergio Mattarella si tratterebbe della prima vera prova da quando è stato eletto, il 31 gennaio 2015. In questi quasi due anni, il Presidente ha mostrato una forte vocazione all' ascolto del cosiddetto «Paese reale», limitando al minimo indispensabile le incursioni sul terreno della politica, e pure in quei rari casi è intervenuto con lo scrupolo evidentissimo di restare «super partes». Sono in molti dunque a chiedersi come si regolerebbe in quel caso il Garante. Altrettanto numerosi quelli che non vorrebbero mai ritrovarsi nei suoi panni in un passaggio così delicato e indecifrabile.
In realtà, c' è poco da interrogarsi su cosa farebbe Mattarella. Nel caso in cui davvero Renzi si presentasse per dare le dimissioni, e non ci fosse modo di fargli cambiare idea, il Presidente si atterrebbe con molto scrupolo alla prassi costituzionale, da cui derivano comportamenti precisi, praticamente dei binari. Si farebbe un dibattito in Parlamento, verrebbero fissate le classiche consultazioni per individuare il successore del premier.
Mattarella chiederebbe indicazioni a tutti, opposizione compresa. Ma sempre tenendo a mente che nel sistema attuale il Capo dello Stato non ha la bacchetta magica, gli mancano i super-poteri, e il pallino del gioco resta comunque in mano alla maggioranza. Dunque la prima verifica che effettuerà Mattarella, in caso di vittoria del No, sarà appunto: esiste ancora una maggioranza?
La presa d' atto sembra fin d' ora abbastanza scontata: una coalizione tra centristi e Pd esisterà anche dopo. Politicamente ammaccata dal referendum, certo, ma numericamente tale tanto alla Camera (grazie al famoso premio) quanto al Senato (per effetto delle scissioni nel centrodestra).
Una volta accertato che così stanno le cose, Mattarella avrà l' obbligo di cercare una soluzione nell' ambito della maggioranza attuale. E lo farà, si può scommettere, con la dovuta pazienza, ma pure con la serenità di chi è convinto che non sono possibili soluzioni alternative. Di sicuro, non favorirà la scorciatoia delle elezioni anticipate, per due ragioni.
Anzitutto non è ben chiaro con quale sistema si andrebbe alle urne. Sull'«Italicum» pende il giudizio della Corte Costituzionale, che si pronuncerà a febbraio. E chi conosce gli umori della Consulta sostiene che già a settembre, se non ci fosse stato il rinvio, la legge elettorale sarebbe stata sicuramente bocciata. Insomma, per il sistema elettorale non tira una buona aria, e sarebbe da pazzi irresponsabili andare al voto con questa spada di Damocle.
renzi referendum costituzionale
Inoltre, fanno notare autorevoli frequentatori del Colle, Mattarella potrebbe sciogliere il Parlamento e convocare nuove elezioni solo nel caso in cui Renzi e il Pd dichiarassero di non voler concorrere a nessun nuovo governo. Cioè si prendessero davanti all' Italia, e nelle dovute forme, la responsabilità di premere il tasto dell' auto-dissoluzione. Che si arrivi a questo punto, sono in pochi a crederlo. Tra i consiglieri del Presidente, quasi nessuno.
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