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Marco Palombi per il "Fatto quotidiano"
La scissione è un classico meccanismo di difesa psicologica che il governo di Enrico Letta conosce molto bene: da un lato, infatti, si bea dei suoi continui minuetti politicisti coi partiti, della tecnica del rinvio e del mettere la polvere sotto al tappeto; dall'altro guarda arrivare la tempesta e anzi l'attende e la prepara.
E così ieri, per dire, il guardiano dei conti, ministro Fabrizio Saccomanni, s'è fatto la sua ora e mezza di chiacchiere con Renato Brunetta e la sua cabina di regia ("che fine ha fatto?"), mentre il premier era costretto addirittura a convocare una verifica di maggioranza per giovedì, giuste le richieste di Monti e dello stesso Pdl, per arrivare magari a quel topos del malaugurio governativo che è la "cabina di regia" sui provvedimenti.
LA musica è sempre quella tenue e sognante del dibattito politico: come evitare l'aumento dell'Iva e dove trovare i soldi per abolire l'Imu sulla prima casa. La risposta è, ancora, nel vento: "Non facile, non impossibile" , dice Saccomanni. Al Tesoro ricominciano a parlare di spending review - ne farà le spese, di nuovo, la sanità - ma all'uopo funzionano meglio le tasse.
Il ministro ripone grandi speranze nel lavoro sulle agevolazioni fiscali fatto due anni fa da Vieri Ceriani, oggi suo consigliere: si tratta di cancellarne alcune troppo generose o di eliminare qualche inutile doppione, un'operazione che si tradurrà automaticamente in un aumento della pressione fiscale sui redditi da lavoro.
Pure il sottosegretario Carlo Dell'Aringa, per conto dell'esecutivo, qualche giorno fa s'è presentato in Parlamento per sostenere che - stante una recente sentenza della Consulta - bisognerà aumentare le tasse sui redditi alti: visto che la Corte ha bocciato prima il prelievo sugli stipendi pubblici sopra i 90mila euro, poi anche quello sulle pensioni d'oro, in quanto "discriminatori", ora ci si riproverà col "prelievo fiscale", che "è la via più universale e quindi a prova di esame costituzionale" (il Pdl, peraltro, non voterebbe mai una roba del genere).
E continua il minuetto: la verifica di maggioranza, la cabina di regia, i rinvii, il gioco di rimandi sulle coperture dei provvedimenti con la Ragioneria generale da un lato e i controllori brussellesi dall'altro.
Poi, però, c'è anche il lato oscuro della luna lettiana. Quello in cui si lavora attorno a scenari assai più preoccupanti e, quel che è peggio, realistici. Che la recessione sia peggiore di quanto finora raccontato nei documenti ufficiali è un segreto solo per il buon Saccomanni ("prevedo una ripresa nel IV trimestre 2013"), ma in aggiunta - al Tesoro, a palazzo Chigi e in molte capitali europee - in molti vedono avvicinarsi una tempesta sui mercati stile 2011, proprio l'evento che potrebbe giustificare una nuova "cura Monti" per l'Italia.
Solo che stavolta - come non si stancano di ripetere da settimane i preoccupatissimi Alesina e Giavazzi sul Corriere, un quotidiano non estraneo al mondo bancario - il tema sarà la tenuta dei nostri istituti di credito, più deboli di due anni fa e drogati da titoli di Stato che potrebbero perdere parecchio del loro valore.
Se questo è lo scenario - arricchito da una Bce a trazione tedesca che non può e non vuole fare da garante - a pagare il conto saranno i risparmi degli italiani (e/o degli altri europei). Saccomanni e Letta hanno smentito con tanto di comunicato ufficiale - "ipotesi prive di fondamento" - e possono farlo per una ragione semplice: non saranno loro, come fece artigianalmente Giuliano Amato, a sottrarre risparmio ai correntisti, ma lo farà direttamente l'Europa.
A questo serve l'accordo raggiunto all'ultimo vertice Ecofin sui cosidetti "fallimenti ordinati" delle banche, che stabilisce nero su bianco che, in caso di bisogno, pagheranno prima azionisti, obbligazionisti e correntisti (da 100 mila euro in su) e solo dopo, forse, gli stati.
Con un effetto collaterale che nel piccolo stagno della finanza italiana già preoccupa più di qualcuno: il grande risparmio si sta spostando fuori dai confini Ue, proprio come era già successo all'indomani del pasticcio a Cipro, quando i paesi europei fecero pagare la solita crisi di debito estero ai correntisti. Dopo aver smentito che lo avrebbero fatto, ovviamente.
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