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Luigi Manconi per “La Stampa”
Chico Forti è un fantasma. Per una parte di italiani - piccola, ma assai sensibile e informata - il suo nome è noto da decenni: ed è così familiare da costituire un elemento del paesaggio quotidiano, a cui si guarda con affetto, ma con un certo fatalismo.
Quel nome evoca un grosso guaio, capitato alla persona sbagliata, lontano, molto lontano, là in Florida. Ma la memoria ha ormai scordato la natura di quel guaio e le vie, se ancora esistono, per uscirne vivi.
Amici e parenti sussurrano a mezza voce che Chico è vittima di una grave ingiustizia, ma che cosa si debba fare per dargli una mano sembra impossibile anche solo immaginarlo. In altre parole, nel nostro tradizionale immaginario domestico, Forti rischia di apparire come quel parente il cui smagliante sorriso resta nelle fotografie giovanili, ora afflitto da un male di cui si sono perse diagnosi e prognosi.
Un anziano zio al quale si vuole bene, al punto che, come fanno i più piccini nell'imminenza delle feste, si scrive una lettera tutta colorata. E, in effetti, a Chico Forti è stata dedicata recentemente una graphic novel di Chiod, che ricostruisce con intelligenza e passione la sua vicenda. (Una dannata commedia, Fabio Galas, 2020).
Messa così sembrerebbe un ennesimo racconto di Natale, malinconicamente simile a tanti altri. E invece no, dopo vent'anni qualcosa sembra mettersi in moto. Riprendiamo, pertanto, il filo della vicenda dall'inizio.
Enrico Forti, nato a Trento nel 1959, è stato campione nazionale di windsurf, ha lavorato come videomaker e poi come produttore televisivo. Grazie agli 80 milioni vinti rispondendo ai quiz di Mike Bongiorno nel corso della trasmissione «Tele Mike» (Canale 5), si trasferisce negli Stati Uniti.
È il 1998 quando Forti, sposato e padre di tre figli, viene arrestato per l'omicidio di Dale Pyke. Secondo l'accusa, Tony Pike (padre della vittima) e Forti avrebbero concluso un contratto preliminare per la compravendita di un albergo a Ibiza. Forti avrebbe tentato di truffare Pike, approfittando della condizione di debolezza psichica di quest'ultimo, allo scopo di ottenere un prezzo particolarmente vantaggioso; Dale Pike, avendo cercato di ostacolare la realizzazione della truffa, sarebbe stato assassinato da Forti.
chico forti in carcere in america
Le prove a suo carico, in realtà, si basavano su esili indizi. Oltre al presunto movente rappresentato dalla truffa (addebito poi archiviato), ad aggravare la sua situazione agli occhi degli inquirenti intervenne una dichiarazione falsa, poi ritrattata, rilasciata nel corso di un interrogatorio durato 22 ore senza l'assistenza di un avvocato.
Altra prova addotta a suo carico: il ritrovamento nella sua auto, a distanza di tre mesi, di «un qualche granello» di sabbia, simile a quella presente nel luogo dove venne abbandonato il cadavere. È qui che scatta il cortocircuito logico nel quale precipitano gli inquirenti e i giudici.
Infatti, «se - come ammesso dallo stesso procuratore nella requisitoria finale - Forti non è stato l'esecutore materiale dell'omicidio», non ci si spiega perché siano stati sostenuti e valorizzati davanti alla giuria quegli elementi prima ricordati, che avrebbero dovuto collegare l'imputato alla scena del crimine. O meglio, lo si può spiegare con l'intento di suggestionare la giuria stessa e orientarla verso un verdetto di colpevolezza.
Cosa puntualmente accaduta con la condanna di Forti all'ergastolo senza condizionale come autore dell'omicidio di Dale Pike. Ciò che emerge - al di là della convinzione di ognuno sull'innocenza o la colpevolezza di Forti - è una serie di gravissime violazioni dei diritti e delle garanzie dell'accusato.
Alessandro Paccione, che segue la vicenda su incarico di A Buon Diritto Onlus, le riassume così: 1) Negazione dei cosiddetti Miranda Rights. Forti fu sottoposto a un lungo e defaticante interrogatorio che lo metteva nella condizione di essere in «police custody»: situazione in cui una persona ragionevole non si sente libera di interrompere l'interrogatorio e congedarsi.
Gli agenti gli avrebbero dovuto illustrare i suoi diritti (Miranda Rights) così che evitasse di incorrere in dichiarazioni autoincriminanti. Tale omissione avrebbe dovuto comportare l'inammissibilità delle prove ottenute in quelle circostanze.
2) Mancato rispetto dei requisiti di colpevolezza. Un imputato può essere condannato solo se e quando le prove a suo carico ne dimostrino la colpevolezza «beyond a reasonable doubt» (oltre ogni ragionevole dubbio).
Questo principio, valido in tutti gli Stati Uniti, implica che i membri della giuria, qualora non vi sia un convincimento di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, «non possono sostenere di condividere la verità dell'accusa».
La sospensione di questo essenziale principio emerge nitidamente dalle parole del procuratore Rubin: «L'accusa non deve dimostrare che Forti è stato l'esecutore materiale allo scopo di provare che egli sia colpevole».
3) Violazione del Sesto emendamento della Costituzione federale. L'imputato ha diritto a ricevere un'assistenza legale efficace da parte del proprio avvocato. Quella del legale di Forti è stata segnata da condotte e omissioni che hanno fortemente minato la posizione del suo assistito agli occhi della giuria.
chico forti con roberta bruzzone
4) Violazione della Convenzione di Vienna. Questa prevede che, in caso di restrizione della libertà di un cittadino di un altro Stato sottoscrittore, le autorità consolari di quest'ultimo vengano avvertite e messe in condizioni di garantire un'adeguata difesa legale.
Nonostante così palesi violazioni dei diritti dell'accusato, oggi non esiste più alcuna possibilità di revisione del processo. L'unica strada percorribile è il ricorso alla Convenzione di Strasburgo del 1983, in base alla quale una persona condannata in uno Stato diverso da quello d'origine, può ottenere di scontare la pena nel proprio paese, più vicino ai propri affetti.
L'aspetto problematico è rappresentato dalla circostanza che la pena comminata dal Tribunale americano è quella dell'ergastolo senza condizionale, non prevista dall'ordinamento italiano. Una volta in Italia, dunque, Forti non potrà scontare la pena inflittagli negli Stati Uniti, ma occorrerà che, in sede di riconoscimento della condanna, la sanzione sia «adattata» alla legislazione nazionale.
Di conseguenza, sono necessarie la massima intelligenza e la massima costanza da parte dell'Italia, nel condurre un'azione politica e diplomatica verso le autorità degli Stati Uniti. Dopo vent'anni da quella condanna iniqua, e dopo tanta indifferenza, sarebbe ora che, finalmente, la politica e la diplomazia italiane si dessero seriamente da fare.
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