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Alessandro De Angelis per “La Stampa” - Estratti
antonio tajani, giorgia meloni e matteo salvini in senato foto lapresse
Dunque, la riforma che procede più spedita nei tempi, e con più concordia tra gli alleati nei modi, è quella che riguarda le toghe. Il sogno di Silvio Berlusconi, che per lustri ha tentato di realizzare la «grande, grande (lo diceva due volte, ndr) riforma della giustizia». Quella che, a suo dire, avrebbe fatto dell'Italia non più una «magistratocrazia», ma una vera democrazia dove «i pm, per parlare con il giudice, devono bussare, entrare col cappello e possibilmente dargli del lei».
(...)
Sarà anche la bandiera storica di Forza Italia nello schema "a me il premierato, a te l'Autonomia, a te la separazione delle carriere", però la verità, che spiega la speditezza, è che gli altri non la vivono come un prezzo da pagare, anzi. In fondo, la polemica con i giudici è parte di un racconto comune, dall'Albania a Open Arms. E Giorgia Meloni ha fiutato che il clima è favorevole, complice la crisi di credibilità e legittimazione della magistratura, confermata dai sondaggi di cui sono pieni i giornali. Insomma, il referendum che, secondo la road map tracciata dovrebbe tenersi la primavera del prossimo anno, non la spaventa, anzi la spinge a fare in fretta.
antonio tajani giorgia meloni matteo salvini
Sull'Autonomia, invece, la bandiera è bucata e la questione è in mano alla Corte costituzionale, che a giorni deciderà se dare la voce al popolo o meno. Molto probabilmente non ammetterà il referendum perché, una volta demolito l'impianto, sarebbero incomprensibili gli esiti del quesito. E a quel punto si ritorna in Parlamento, per riscrivere le norme smontate dalla Consulta nella sua articolata sentenza.
Lì, innanzitutto, deve essere colmato il buco dei Lep, i livelli essenziali di prestazione, il cuore della legge. Cioè, si ricomincia daccapo con le leggi delega. Non ci vuole una Cassandra per prevedere un cammino per niente agevole, per la riscrittura, di fatto, di mezza riforma.
antonio tajani giorgia meloni matteo salvini
Se invece si dovesse ammettere il referendum, rimarrebbe tutto fermo fino alla sua celebrazione in primavera, per poi comunque ripassare dal Parlamento perché comunque va reso coerente l'impianto con i rilievi della Corte.
Già i cavilli indicano un binario, se non morto, comunque piuttosto accidentato, poi c'è la politica che, con ogni evidenza, non freme su un provvedimento che fa pagare salati prezzi elettorali al Sud ed è percepito come esistenziale solo da una parte della Lega. Una parte, non tutta: neanche Salvini, per debolezza o convinzioni, si è immolato fino in fondo.
giorgia meloni antonio tajani matteo salvini
E sempre col fiuto (di Giorgia Meloni) ha a che fare il rallentamento sul premierato, confermato dalla premier per la prima volta in conferenza stampa, dove ha mutato radicalmente registro rispetto a quando annunciò muscolarmente, e quasi con piglio revanchista, «la madre di tutte le riforme». Va di moda dire che «non vuole fare la fine di Matteo Renzi», ed è così. Nel senso che il referendum confermativo è l'unico elemento che tiene assieme tutte le opposizioni, e inevitabilmente sarebbe un voto sul governo. Impossibile, in caso di bocciatura, far finta di niente.
matteo salvini roberto calderoli
Anche in questo caso, però, contano gli umori del paese. Renzi perse perché si misero assieme tutti, però anche perché quella riforma non veniva percepita come una priorità dagli italiani. Sembrava un disegno avulso dai problemi che stanno a cuore ai cittadini, in una situazione economica infinitamente meno complicata dall'attuale, tra guerre, caro energia, questione salariale.
E poi c'è un elemento che ha a che fare col percepito. Paradossalmente proprio la forza della Meloni ha rallentato il premierato. Nel senso che, essendoci, un "premierato di fatto", sembra quasi inutile votare per quello "di diritto". La gente vede una leader che occupa in maniera totale la scena, senza alternative dall'altra parte, senza trame degli alleati alle viste, con i sondaggi che registrano fiducia al giro di boa della legislatura. Portare a votare i cittadini per forza su una cosa che non sta in cima ai loro pensieri, potrebbe essere percepito come un atto di arroganza che muta il clima.
Questo non equivale a una rinuncia al progetto, perché la rinuncia non è neanche nelle corde della premier. Ma a un gioco sui tempi, con l'idea di approvarlo magari alla fine della legislatura: incassa la bandiera, ma rinvia la data della pugna a dopo il voto sulle politiche. Con la speranza e l'ambizione di gestire la consultazione da palazzo Chigi, dopo la riconferma. E sfruttare l'effetto trascinamento della vittoria. Anche un'eventuale sconfitta sarebbe in quel caso meno dolorosa. A proposito di Berlusconi, fece lo stesso calcolo sulla sua riforma costituzionale. Approvata nel 2005, si votò nel 2006 dopo le politiche, non prima, per il medesimo calcolo. Perse entrambe le consultazioni, ma questo è un altro discorso
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