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Paolo Mastrolilli per La Stampa
La riconquista repubblicana deve partire da qui, se vuole esistere. Mooresville, North Carolina, cuore tecnologico di Nascar, il campionato automobilistico americano che in pratica ha preso il posto dei rodei nel cuore dell'uomo bianco del Sud. Qui si ferma per la sua tappa inaugurale il bus di Mitt Romney e Paul Ryan, il «comeback team», che parte insieme per la prima volta all'assalto della Casa Bianca, stretta di mano per stretta di mano. Attaccando ancora l'Europa e l'Italia.
Qui, fra tre settimane, comincerà la Convention del presidente Obama, che spera di ripetere il colpo del 2008, quando portò via a McCain questo Stato di solida tradizione repubblicana. Dunque sfida diretta sul terreno del capo della Casa Bianca.
Sono le otto di domenica mattina, e per strada c'è già la fila: un ingorgo di auto, piene di fedeli venuti a sentire i profeti della riconquista. Ryan ha un momento per rivolgersi ai giornalisti che viaggiano con lui: «Beh, direi che devo abituarmi: questo sogno surreale si sta trasformando in realtà . Abbiamo il vento che ci spinge alle spalle, perché l'economia americana non funziona, e solo noi conosciamo la ricetta per aggiustarla».
Davanti alla sede tecnica di Nascar ci sono un paio di cartelli di protesta, che se la prendono con «Offshore Mitt», o attaccano il suo vice per la proposta di bilancio che privatizzerebbe l'assistenza sanitaria pubblica Medicare: «Romney e Ryan sono ricchi e non hanno bisogno della mutua, io sì». E' poca roba, però.
Il portavoce Kevin Madden calcola che ci sono almeno 5 mila persone, e si vede. Madden risponde anche alle voci secondo cui Mitt sta già prendendo le distanze dalle idee di Paul sul bilancio, perché le ritiene troppo estreme e capaci di allontanare il voto moderato: «Il candidato alla presidenza - chiarisce Kevin - è Romney. Lui decide le politiche economiche, e Ryan sarà felice di sostenerle. Paul ci aiuterà a riportare l'attenzione sulla crisi, ma anche a vincere stati chiave del Midwest, come il suo Wisconsin e l'Iowa».
In effetti sopra al palco, davanti a due auto da corsa dedicate al «Team Romney», non c'è tensione. Mitt e Paul, in maniche di camicia, salgono insieme alle mogli Ann e Janna: «Sono molto migliori dei loro mariti», scherza Romney. C'è chimica tra i due, ripetono gli analisti, che avevano visto calare l'energia e le percentuali dei sondaggi, nelle ultime settimane di campagna.
Paul attacca subito: «La disoccupazione in America è sopra l'8%, e qui in North Carolina è anche peggio, al 9,4%. Dall'inizio della crisi avete perso oltre 400 mila posti, e sapete perché? Ve lo dico io: il presidente Obama ha attuato tutte le sue politiche stataliste e assistenzialiste, ma non hanno funzionato, perché non funzionano mai. Se resta ancora un po' al potere, ci farà eguagliare i successi della Grecia. Qui con me, però, c'è l'uomo che glielo impedirà ».
Nella sala si alzano grida da rodeo, più che da circuito automobilistico, e all'inizio Romney sembra affascinato solo dalla macchina da corsa col suo nome sopra: «Un sogno, Ann. Ti ricordi quella carretta rossa con cui ti venni a prendere la prima volta? Mio padre non era largo di manica». Un minuto dopo, però, anche lui attacca Obama partendo da lontano: «Ha ragione Paul. Il presidente ci vuole portare verso la disoccupazione cronica, la crescita bassa e il debito esplosivo. Come la Grecia, la Spagna, l'Italia. Cerca di copiare l'Europa. Ma noi vogliamo tornare ad essere l'America, non l'Europa!».
Sembra una parola in codice, perché fa scoppiare l'applauso in sala. Allora Mitt passa a toccare le corde più sensibili al Sud: «I nostri diritti ce li danno Dio e la natura umana, non il governo. Non è la burocrazia statale che ci ha resi grandi, ma l'iniziativa della gente».
Tra Dio e il dollaro, Romney spiega la sua visione: «Paul e io abbiamo un piano in cinque punti, che nel giro di quattro anni produrrà 12 milioni di posti di lavoro. Primo, rilanciare le nostre risorse energetiche per diventare indipendenti; secondo, potenziare l'istruzione e indebolire il sindacato degli insegnanti, per mettere i nostri figli in condizione di avere successo ovunque; terzo, rafforzare i commerci internazionali, senza però cedere a Paesi che imbrogliano come la Cina; quarto, evitare il destino dell'Europa, tagliando il debito e riportando il bilancio in pareggio; quinto, sostenere la piccola impresa, abbassando le tasse e togliendo le regole che frenano il nostro business».
E' l'accelerazione della campagna, che i repubblicani conservatori speravano di ricavare dalla nomina di Ryan. Infatti Mitt conclude così: «A novembre, in sostanza, dovrete scegliere tra due visioni nette: quella di Obama, che vuole uno Stato enorme a cui affidare tutte le soluzioni, e quella nostra, che invece vogliamo dare fiducia all'iniziativa degli americani e ristabilire i principi che ci hanno resi grande. Torneremo a costruire un'America forte, nell'economia, nel campo militare, e nei valori delle nostre famiglie».
Poesia, per le orecchie del Sud. Dio, patria e famiglia, più qualche fucile, un'economia di mercato in ripresa, e niente Europa. Russell, un veterano del Vietnam, sorride e applaude sotto al palco: «Voterò Romney perché non voglio il socialismo. Ho amici polacchi e italiani che mi dicono sempre: ma come, noi siamo scappati dall'Europa perché non volevamo questa roba, e adesso ce la ritroviamo qui in America?».
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