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Ugo Bertone per Libero
«Ne sono convinto: il rendimento dei titoli italiani è troppo alto. Ma io vendo lo stesso». Parla così monsieur de Larozière, 30 anni, che amministra un tesoro di 18 miliardi di euro in titoli di Stato per conto della francese Natixis. Il servizio d'apertura dell'International Herald Tribune di ieri è dedicato agli operatori che, ogni giorno, combattono (è il termine più adeguato) la guerra del debito pubblico: «Cercate di capire - continua de Larouzière - Non è questione di fondamentali dell'economia. Qui si parla di emozioni. Anzi, di paura bella e buona».
Può cominciare di qui il check up sullo stato di salute della zona euro al quinto anno della crisi. Già , martedì mattina la crisi finanziaria compie cinque anni: il 7 agosto del 2007, infatti, tre fondi monetari, sulla carta depositi più sicuri del materasso di casa, di Bnp Paribas rivelarono di non poter far fronte ai riscatti, perché invischiati in prestiti immobiliari che, sulla carta, sembravano sicuri. à lì, assai più che nella spensieratezza dei ministri delle Finanze dell'Europa mediterranea (con l'eccezione della Grecia) che va individuata l'origine della crisi che sta mettendo a dura prova le nostre tasche.
La recessione è stata scatenata dalla bolla immobiliare Usa, a sua volta scatenata dall'avidità di guadagno della finanza Usa, ma anche di Deutsche Bank o degli istituti francesi, inglesi od irlandesi che non volevano rinunciare al banchetto dei tassi bassi. Il ciclone che ha investito l'Europa, a partire dal progetto di unità fiscale e politica del Vecchio Continente, è solo una delle conseguenze di quella bolla che ha colpito al cuore il sistema del credito: da cinque anni i quattrini, seppur concessi a tassi zero, non arrivano più al mondo delle imprese.
E quando ci arrivano come dimostra l'esempio delle multinazionali tedesche, tornano subito nei depositi della Bce, a tasso zero. In una comunità giovane come l'eurozona, una crisi di fiducia di queste proporzioni rischia di essere mortale. Il sistema, infatti, reggeva finché i Paesi in surplus, a partire dalla Germania, trovavano conveniente investire a tassi allettanti in Grecia, Spagna o Italia.
Oggi, complice la paura generata dalla crisi, il fenomeno si è ribaltato: la parola più usata nelle trattative di Bruxelles o Francoforte è "garanzia". La Finlandia, in cambio dei suoi prestiti, richiede impegni specifici dalla Spagna o dalla Grecia. L'eventuale aiuto all'Italia sarà condizionato, al pari, da impegni espliciti. Intanto, geniale esito delle manovre dell'ultimo anno, la classe media italiana spremuta dall'Imu finanzia, oltre alla spesa sanitaria siciliana, anche l'economia tedesca.
Vale la pena i far parte di una comunità del genere? Sì, purché invece di spremere i contribuenti, i «compiti a casa» servano a disegnare un'Italia più moderna in cui finalmente tutti capiscano che, come diceva Milton Friedman, «nessun pasto è gratis» nemmeno a Palermo. O che i diritti dei «makers», cioè quelli che producono, non vanno piegati a quelli dei «takers» cioè i beneficiari del welfare.
Sì, purché a Berlino si capisca che non esiste una divisione manichea tra «buoni», cioè i creditori, e «cattivi», cioè i debitori. Parlando da ragionieri, i vantaggi dell'euro per l'Italia che campa di export, cioè da Roma in su, sono senz'altro ancora superiori ai costi. In termini politici, non è esagerato pensare che l'Europa si troverà ad affrontare in prima linea la prossima crisi del Medio Oriente.
Secondo lo storico dell'economia Niall Ferguson, l'esito della doppia crisi - euro e conflitto mediorientale - potrebbe portare ad un serie di rivolgimenti con un esito per noi amaro: nell'Europa ad impronta tedesca italiani e spagnoli camperanno come giardinieri di case vendute ai cittadini del Nord Europa. Più qualche lavoretto, naturalmente in nero. Un paradosso, certo, ma che ha un fondo di verità . Per evitarlo c'è una sola strada: un'architettura coerente che consenta l'integrazione bancaria (primo passo) fiscale e politica.
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