DAGOREPORT – DANIELA SANTANCHÈ NON È GENNARO SANGIULIANO, UN GIORNALISTA PRESTATO ALLA POLITICA…
Tommaso Labate per l'UnitÃ
Se pure venerdì ha preferito lasciare più spazio ad Angelino Alfano, si vede che le doti del piazzista sono ancora quelle dei tempi d'oro. Di quando, tanto per pescare un esempio dal suo variopinto bouquet di prodezze imprenditoriali, si presentò a casa di Raimondo Vianello e Sandra Mondaini per convincerli ad abbandonare la Rai per approdare in Fininvest.
«Ci dice che è pronto a darci un programma, che ci aspetta a braccia aperte. à un venditore», raccontò una volta Vianello. Che, insieme alla moglie, si fece sedurre dal dettaglio finale che il protagonista della scena aveva inserito nel suo canovaccio. «Ci offre patti chiari e pure soldi. Insomma, ha argomenti convincenti. A un certo punto - è ancora Raimondo la voce narrante - gli chiedo se vuole bere qualcosa. Lui mi risponde: "Non avrebbe un panino?". Mi assale un dubbio: ma questo è davvero miliardario?».
Quasi trent'anni fa, di fronte a una delle ditte più premiate di Mamma Rai, Silvio Berlusconi offrì patti chiari e pure soldi. E, in cambio di un panino, realizzò un affare per sé e per la coppia Vianello-Mondaini, che gli sarebbero stati fedeli fino alla morte. Ma adesso che propone al Pd quello che il Pd va cercando da una vita, e cioè il semipresidenzialismo alla francese, con tanto di maggioritario a doppio turno, è quasi scontato che tra i Democratici più d'uno pensi di trovarsi di fronte al Principe della risata mentre prova a vendere la Fontana di Trevi in Totòtruffa '62. Come a dire, la merce è ottima. Ma il venditore è davvero affidabile?
In fondo, si tratta dello stesso venditore che il primo febbraio 1998 diede un colpo d'ascia alla commissione bicamerale presieduta da Massimo D'Alema. E fu un colpo a sorpresa, che fece naufragare più o meno quello stesso sistema semipresidenziale e maggioritario alla francese che il Cavaliere torna a proporre tredici anni dopo.
Strano ma vero Berlusconi si trovava in Francia, la patria del «modello», quel giorno. E mentre in Italia il lavoro delle forze politiche marciava spedito verso la riforma delle riforme, lui sfasciò il castello di carte. In contumacia e con un clamoroso dietrofront. «Il sistema maggioritario è certamente il migliore in una democrazia avanzata», precisò. Ma, aggiunse, «questo non è il caso dell'Italia, dove ci sono cinque poli».
Quindi, dopo un dettagliato elenco dei poli - «An, la federazione liberaldemocratica, la Lega, l'Ulivo e Rifondazione» - la bordata: «In queste condizioni il sistema proporzionale lo trovo più democratico. Perché con le preferenze il cittadino sceglie i suoi candidati, che nel maggioritario sono invece imposti dall'alto, dai partiti».
Ora non è tanto la capacità di disfare in due minuti una tela bipartisan che i partiti avevano costruito in molti mesi, dalla sera in cui la signora Letta aveva servito la ben nota crostata sotto i cui auspici era nato l'omonimo «patto». Quanto il fatto che, per raggiungere l'obiettivo, quella volta Berlusconi arrivò addirittura a scendere a patti col più comunista di tutti i comunisti: Armando Cossutta.
Fu il Cavaliere stesso ad ammettere i contatti con l'allora leader di Rifondazione, che era un proporzionalista ortodosso. «Ho sentito la proposta di Cossutta che rilancia il sistema proporzionale con lo sbarramento al 5 per cento: si dovrebbe riaprire la discussione», sussurrò a mezza bocca dalla Francia mentre l'«Armando», dall'Italia, ricambiava il favore al grido di «siamo pronti a discutere con tutti», anche con Berlusconi, per evitare il maggioritario.
La fine è nota. Alla bordata del Cavaliere seguì la lenta agonia della Bicamerale. A cui fu sempre il grande venditore a staccare la spina qualche mese dopo. Quando, era proprio il 27 maggio del 1998, si alzò nell'Aula della Camera dei Deputati e seppellì tutti i sogni di riforma. «Abbiamo deciso di bloccare la deriva verso lesabbie mobili di un disegno di riforma di basso livello, di una Costituzione frutto di una composizione occasionale e improvvisata di norme. Abbiamo deciso di arrestare questo degrado». Game over.
La grande abilità di Berlusconi nel giustificare il passo indietro, almeno nelle confidenze fatte trapelare dai fedelissimi, fu nel chiamare in causa un altro suo celeberrimo bluff. Nel 1996, quando dopo il governo Dini s'avanzava un esecutivo di larghe intese guidato da Antonio Maccanico, il Cavaliere prima disse sì. Poi, complice la retromarcia di Fini, spinse per tornare alle urne sorretto dall'infausta certezza di vincere le elezioni.
Da lì la sua postuma e silenziosa predilezione per il proporzionale, che evidentemente aveva covato in misteriosa solitudine. «Sono condizionato da ex fascisti. Quasi quasi, sarebbe meglio tornare al proporzionale». Peccato che si fosse dimenticato di dirlo al resto della ciurma bipartisan, che è più o meno la stessa a cui chiede oggi di lavorare per il semipresidenzialismo. E che lo guarda col sospetto di chi si presenta offrendo la Fontana di Trevi. Al contrario di come aveva fatto con Sandra&Raimondo, ai quali invece s'era limitato a chiedere giusto un panino.
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