LO STATISTICO CHE STUDIA DA STATISTA: L’OPA DI BARCA SUL PD

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Denise Pardo per Espresso.it

Anche se lui non ci ha pensato prima - e sarà pure strano, ma così dicono quelli che lo amano e lo seguono - ora la pulce gli sarà entrata nell'orecchio. La pulce è questa: il leader, lato democratico o lato quel che sarà la futura sinistra, non c'è (o è incerto). Ma c'è Fabrizio Barca che potrebbe essere il leader, ministro uscente per la Coesione territoriale.

Alla trasmissione radio, non sobria, non tecnica ma molto popolare 'Un giorno da pecora', a domanda ha risposto pari pari: «Ho votato a sinistra del Pd». Alla festa della Repubblica al Quirinale, un anno fa, ha dichiarato che bisognava mandare i militari nelle zone del terremoto, non a sfilare alla parata del 2 giugno. «Io non vado. Porto mio padre che ha 91 anni al mare a mangiare uno spaghetto come si deve», ha detto. Ha fatto bene: Luciano, il papà - scrittore e partigiano, già parlamentare del Pci - è morto pochi mesi dopo, a novembre.

Quando, nel 1988 lasciata Banca d'Italia e chiamato da Carlo Azeglio Ciampi, Fabrizio Barca era a capo del Dipartimento delle Politiche di sviluppo al ministero del Tesoro, alfiere della Npr, la Nuova politica regionale, contratti d'area, patti territoriali telefonava personalmente ai giovani economisti per annunciare che erano stati scelti e davvero sulla base dei loro curriculum (non faceva lui la selezione).

Uno di loro chiese: «Scusi, dottor Barca, ma prima non vuole vedermi in faccia?». «Dice che è il caso?», domandò Barca. «Beh, se io fossi lei, lo farei». Risposta: «Ha ragione, venga». Quattordici anni dopo, da neo ministro ha postato su Twitter, su cui è attivissimo, il bando per la selezione di personale per il suo staff.

Barca non è un elefante di partito. Non è un rottamatore, un unto del signore, un figlio di un dio minore e nemmeno una creatura del Web. E' uno che crede nella militanza nello Stato, nel valore della competenza. Oltre che nell'orgoglio di essere cresciuto con lo stile di vita dell'aristocrazia rossa e con la sensazione di avere un destino - importante - segnato.

«E se fosse Barca l'uomo nuovo del Pd?», ha sibilato con aria insinuante Bruno Vespa al segretario Pd Pier Luigi Bersani. Il leader in pectore è stato generoso ma ha sviato: «Io Fabrizio lo stimo tantissimo, gli voglio anche bene, è persona seria». Un'ottima pagella. Certo non un endorsement.

Primo ministro della Coesione territoriale della storia della Repubblica, nato a Torino il giorno della festa della donna e nell'anno, il 1954, in cui ha visto la luce la Rai, Barca è un economista di fama internazionale, ex Fgci, un alto burocrate molto determinato dotato di un carisma ben allenato, il passo di un gran camminatore di montagna, uno fuori dalla politica in senso stretto ma che sostiene «si è politici sempre, anche in casa».

Laurea in Scienze Statistiche all'università di Roma, master in Philosophy in economia a Cambridge, sposato con Clarissa Botsford, padre di tre figli (due all'estero, in Sud America e in Inghilterra: «Se l'Italia non migliora stanno bene lì», ha proclamato sollevando un putiferio) direttore generale del ministero dell'Economia, presidente del Comitato delle politiche territoriali dell'Ocse, approda al governo di Mario Monti dopo aver superato come una salamandra il fuoco della convivenza con cinque ministri, a dir poco delle primedonne (oltre a Ciampi, Amato, Visco, Siniscalco e Padoa-Schioppa).

E soprattutto dopo aver stretto i denti nelle tre stagioni di Giulio Tremonti (in cui cresce invece Vittorio Grilli) che prima lo esilia in una stanzetta, poi ne fa una sorta di capo segreteria tecnica - per controllarlo meglio da vicino si diceva - senza affidargli nessun compito preciso, salvo chiedergli ogni tanto di reperire quattrini dei fondi strutturali inutilizzati, materia diventata per lui più che un abito su misura una seconda pelle.

Al tempo del confino, lega molto con il siciliano Gianfranco Miccichè (feroce critico di Tremonti) che poi lo presenta a Berlusconi, subito dopo la nomina di Barca a direttore generale, nomina respinta per ben tre volte dal Consiglio dei ministri. Motivazione: alto comunismo. Di Barca Miccichè urla «E' bravissimo». Ma il rapporto non piacque all'ortodossia di ambedue le parti.

Non si sa se Barca abbia le stimmate per un'ascensione così altolocata come quella di una premiership ma a volte quando il karma politico s'incarica di fare quello che gli uomini politici non vogliono fare, spunta il nome di uno con le sue caratteristiche, vedi il Professore di Bologna.

E in effetti nel mezzo del grillismo, dell'anti-politica e della vetero politica, Barca potrebbe essere un "Romano Prodi numero due", secondo Angelo Rovati, miglior amico dell'ex premier (così ha detto al 'Foglio' in un pezzo di Claudio Cerasa) con il sostegno di Mario Monti, la stima di Carlo Azeglio Ciampi, la considerazione di Giorgio Napolitano, suo grande fan e vecchio amico del padre Luciano, molto vicino a Enrico Berlinguer.

Sullo sfondo di una politica spettrale e spesso tremebonda, chi ha lavorato con Barca gli riconosce la capacità di prendersi le responsabilità e di esercitare la leadership: a un economista saccente che gli contestava la linea ricordò che lui era il capo e dunque si faceva come diceva lui.

Fu proprio Barca la mattina dopo la conferenza stampa di Monti e Fornero per il varo della riforma del lavoro e dell'articolo 18, a sollevare in diretta tv il problema dei problemi, ovvero il confine tra licenziamento per motivi economici e licenziamento discriminatorio. Proseguì dopo in Consiglio dei ministri: «In genere parliamo due minuti, oggi parlerò venti», esordì e giù a srotolare tutto quello che non andava e a fare lui la lezione da vero comunista alla professoressa Fornero. Che da allora non lo considera il suo amico del cuore.

In un momento in cui la sinistra è così incerta ed errante da non voler nemmeno riassumersi in una definizione, il ministro ha provato a rispondere a Claudio Sabelli Fioretti sulla questione: «Essere di sinistra vuol dire dare peso tra crescita e inclusione sociale, all'inclusione sociale cioè garantire a tutti di avere accesso ai servizi fondamentali».

 

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