donald trump

COME DESTRA E SINISTRA SI UNISCONO PER FAR VINCERE TRUMP - IL 'NEW YORK TIMES' ATTACCA IL REPUBBLICANO IN CRISI CON IL SUO STAFF. LUI: ''HO 73 PERSONE, HILLARY 800 E STA PERDENDO'' - IL NEOCON KAGAN CHE LO CHIAMA ''FASCISTA'' E' UNA GRANDE ARMA PER SBERTUCCIARE L'ÉLITE DEL PARTITO

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"ECCO COME IL FASCISMO ARRIVA IN AMERICA", ROBERT KAGAN PER IL ''WASHINGTON POST'' DEL 18 MAGGIO 2016

 

https://www.washingtonpost.com/opinions/this-is-how-fascism-comes-to-america/2016/05/17/c4e32c58-1c47-11e6-8c7b-6931e66333e7_story.html

 

 

L'ARTICOLO DEL ''NEW YORK TIMES'' SU TRUMP E IL FASCISMO

 

http://nyti.ms/25pfiyW

 

donald trump        donald trump

 

 

1. TRUMP HA UN SERIO PROBLEMA COL SUO STAFF, SCRIVE IL NEW YORK TIMES

Alberto Flores D’Arcais per ''la Repubblica''

 

Il primo a usare la parola tabù era stato Robert Kagan sul Washington Post («Ecco come il fascismo arriva in America»), adesso l’ha sdoganato anche il New York Times con un articolo di Peter Baker, corrispondente dalla Casa Bianca. Lui, “The Donald”, non se ne preoccupa troppo: sa che certi attacchi possono portargli nuovi fan, in questo caso dalla destra estrema. Quello che invece proprio non sopporta sono gli articoli che il quotidiano di New York ha messo insieme negli ultimi tempi su di lui e che secondo Trump fanno parte di una vera e propria «campagna diffamatoria» da parte di un giornale «in fallimento».

 

donald    trumpdonald trump

L’ultima irritazione è per l’articolo dedicato ai suoi più stretti collaboratori (27 maggio), che partendo dal licenziamento in tronco di Rick Wiley (direttore politico della sua campagna) neanche due mesi dopo averlo assunto, fa il punto sullo “staff zoppicante” del candidato del Grand Old Party.

 

«Il New York Times, che sta fallendo, ha scritto una storia sul mio stile di gestione e sul fatto che non ho molte persone nel mio staff. Ne ho 73, Hillary ne ha 800 e la sto battendo», la replica un po’ stizzita di “The Donald”. Che poi aggiunge una velenosa frase sull’attendibilità dei giornalisti: «Non credete ai media che citano staff della mia campagna per scrivere i loro articoli, le uniche affermazioni che contano sono le mie».

 

In effetti, con la sua presenza bulimica sui social network (che gestisce tutti in prima persona o con i figli) le polemiche (e la pubblicità) le alimenta quasi da solo.

 

ROBERT  KAGAN  ROBERT KAGAN

Con il New York Times (il quotidiano liberal si è schierato con Hillary Clinton) ha un conto da regolare non solo, o non tanto, per gli editoriali che lo definiscono «poco presidenziale» o gli articoli che lo descrivono come pericoloso per il futuro dell’America, ma soprattutto per l’inchiesta sui suoi rapporti con le donne (14 maggio). Cui aveva replicato accusando il giornale di «essere disonesto», di aver eliminato le risposte di donne a lui favorevoli e di aver scritto «un sacco di bugie». Dieci giorni dopo il Nyt è intervenuto nuovamente con un lungo elenco di tutte le dichiarazioni misogine di Trump.

 

Quello di cui il candidato che mira alla Casa Bianca dovrebbe adesso preoccuparsi è la decisione del giudice Gonzalo Curiel, che ha ordinato che vengano resi pubblici i documenti sulla Trump University, una vicenda che potrebbe metterlo in difficoltà. Lui ha reagito con l’insulto («è un messicano») e con quella che è sembrata quasi una minaccia («ci vedremo a novembre quando sarò presidente»).

 

 

2. “È ARRIVATO IL FASCISMO” I DILEMMI DELL’AMERICA DAVANTI AL TABÙ FINALE

Federico Rampini per ''La Repubblica''

 

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Ci voleva un grande conservatore per osare pronunciare quella parola. Il fascismo in America? A spezzare il tabù è stato Robert Kagan, già consigliere di George W. Bush, “neocon” esperto di geopolitica, autore della celebre metafora su «gli americani che vengono da Marte, gli europei da Venere».

 

In un editoriale-shock sul Washington Post, Kagan ha messo da parte cautele verbali, circonvoluzioni e inibizioni dell’intellighenzia. Il titolo è un pugno allo stomaco: «Ecco come il fascismo arriva in America». Il portatore della peste nera, Kagan non ha dubbi, si chiama Donald Trump. L’intellettuale di destra non risparmia le accuse ai suoi compagni di partito: «Lo sforzo dei repubblicani per trattare Trump come un candidato normale sarebbe ridicolo, se non fosse così pericoloso per la nostra repubblica».

 

Segue una descrizione del ciclone-Trump in tutti i suoi ingredienti: «l’idea che la cultura democratica produce debolezza», «il fascino della forza bruta e del machismo », «le affermazioni incoerenti e contraddittorie ma segnate da ingredienti comuni quali il risentimento e il disprezzo, l’odio e la rabbia verso le minoranze». Il verdetto finale: «E’ una minaccia per la democrazia », un fenomeno «che alla sua apparizione in altre nazioni e in altre epoche, fu definito fascismo ».

 

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Ora che un guru della destra ha sdoganato contro “The Donald” l’accusa che molti non osavano pronunciare, il New York Times sbatte la controversia in prima pagina. Con il titolo “L’ascesa di Trump e il dibattito sul fascismo”, il quotidiano liberal dà conto di un allarme che sta diventando esplicito. Cita un politico, l’ex governatore del Massachusetts William Weld, che paragona il progetto di Trump per la deportazione di 11 milioni di immigrati alla “notte di cristallo” del 1938 in cui i nazisti si scatenarono nelle violenze contro gli ebrei.

MUSSOLINI E HITLER MUSSOLINI E HITLER

 

Il New York Times allarga l’orizzonte, per cogliere dietro il fenomeno Trump una tendenza più globale: mette insieme una generazione di leader che vanno da Vladimir Putin al turco Erdogan, dall’ungherese Orban ai suoi emuli in Polonia, più l’ascesa di vari movimenti di estrema destra in Francia, Germania, Grecia.

 

Nell’élite intellettuale newyorchese tornano di moda due romanzi di fanta-politica. Scritti da due premi Nobel, in epoche diverse, ma con la stessa trama: l’avvento di un autoritarismo nazionalista in America. Il primo è di Sinclair Lews, s’intitola “Qui non è possibile”: affermazione rassicurante, e contraddetta. Scritto e ambientato nel 1935, immagina che Franklin Roosevelt dopo un solo mandato sia sconfitto e sostituito da un fascista.

 

L’altro romanzo è “Il complotto contro l’America” di Philip Roth, molto più recente (2004), immagina che nel 1940 Roosevelt sia battuto dall’aviatore Charles Lindbergh, simpatizzante notorio di Hitler e Mussolini. La grande letteratura aveva previsto ciò che i politologi non vollero prendere in considerazione?

 

La reticenza che fino a poco tempo fa aveva impedito questo dibattito, ha varie spiegazioni. Al primo posto, la fiducia sulla solidità della più antica tra le liberal-democrazie. Poi, l’America è abituata a considerarsi all’avanguardia, è imbarazzante ammettere che importa tendenze in atto da anni in Europa.

 

Newt Gingrich Newt Gingrich

L’autocensura che ha trattenuto gli intellettuali nasce anche da un complesso di colpa: la narrazione dominante dice che l’élite pensante ha ignorato per anni le sofferenze di quel ceto medio bianco (declassato, impoverito dalla crisi, “marginalizzato” dalla società multietnica) che oggi vota Trump. Dargli del fascista, può sembrare una scorciatoia per ignorare le cause profonde di un disagio sociale.

 

Sulle etichette, molti preferiscono sfumature diverse, dalla “democrazia illiberale” ai “populismi autoritari”. L’allarme di Kagan sembra comunque troppo tardivo per arrestare la tendenza dei repubblicani a salire sul carro del vincitore. Newt Gingrich, l’ex presidente della Camera che oggi aspira a fare il vicepresidente di Trump, interpreta l’opinione prevalente dei suoi, quando definisce gli accostamenti col fascismo «ignoranti, offensivi, semplice spazzatura».