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Vittorio Zucconi per “la Repubblica”
Le lettere del padre che Barack Obama ha paura di leggere affiorano dalle teche refrigerate di un centro studi di Harlem e attendono che il figlio faccia la pace postuma con se stesso e con l’uomo che lo abbandonò due volte. Era stato sul volo 162 della British Airways da Nairobi a New York via Roma, la mattina del 4 agosto 1959 che quell’uomo si era imbarcato per andare a scrivere la Storia degli Stati Uniti.
Il suo nome era Obama, Barack Hussein, un giovane contabile ambizioso, disperato, tenace che aveva tentato di lanciare i suoi 23 anni oltre i continenti e gli oceani per sfuggire al destino del padre, domestico in una casa di espatriati bianchi. E sarebbe diventato il padre del 44esimo Presidente degli Stati Uniti.
Ora i frammenti di quella vita africana, raccolti nel centro di ricerca sulla cultura afroamericana Schomburg, ad Harlem, al numero 515 di una strada intitolata a Malcolm X, sono riaffiorati in questo weekend di giugno dedicato alla Festa del Papà. Il New York Times ha fatto quello che Barack Hussein Obama jr, il figlio Presidente, non ha mai voluto fare: leggerli. Cercare di capire chi fosse, che cosa avesse animato Barack sr. E perché il figlio abbia sempre voluto mettere distanza fra sé e il giovane contabile keniano che s’imbarcò sul volo British.
Ci sono poche fotografie, nel “Fondo Obama”, e una sola con il figlio, scattata nel 1971, quando il futuro presidente aveva 10 anni e aveva conosciuto per la prima il padre biologico, che aveva scaricato la madre, Ann Dunham e lui, quando aveva tre anni. Ma l’immagine del keniano, cresciuto in una casa dove suo padre costringeva i figli a ripetere tutte le tabelline a memoria prima di cena e li puniva con una frusta se sbagliavano, esce dalle sue lettere, a mano o dattilografate.
Sono messaggi di una persona ferocemente ambiziosa, disperatamente egoista, condannata, dalla sua personalità e dal tempo di caos e di rivolgimenti spalancato come dalla decolonizzazione dell’Africa, a cercarsi una vita, dove una vita non c’era. «Volevo studiare, migliorare la mia istruzione — scrive — non c’erano buone scuole, non c’erano università nel Kenya degli Anni ’50 e cominciai a sognare l’America».
Lavorava come impiegato in un’azienda inglese, forte della sua capacità di fare bene i conti e di tradurre dallo swahili, la lingua prevalente in Kenya, e l’inglese. Attraverso il padrone — perché quello era — del padre, riuscì a mettersi in contatto con la Università delle Hawaii. Raggiunse Honolulu con un’odissea aerea, da Nairobi a Roma, da Roma a Parigi, da Parigi a New York, da New York a San Francisco, da San Francisco alle Hawaii.
«La gente qui è gentilissima con me e quasi stupita di vedere un uomo con la pelle scura, perché alle Hawaii ci sono pochissimi neri e nessun africano». «Mi invitano a parlare agli studenti e nelle chiese dei nostri problemi» scrive.
E la gentilezza, l’accoglienza dei locali divenne la relazione con una ragazza bianca del Kansas, Ann Dunham, che viveva a Honolulu con la nonna, dirigente di banca. Ann rimase incinta, futura madre di un bambino di razza mista bianca e africana, evento inaudito e tabù in un’America dove, ancora in molti stati, le relazioni fra razze diverse erano scandalose e i matrimoni proibiti per legge.
Ma era l’ambizione, non l’amore, il carburante che alimentava quell’uomo. La laurea alla Hawaii University, l’amore di Ann, che aveva sposato, e il bambino non gli bastavano. Era uno studente eccezionale e fu accettato ad Harvard, all’altro capo degli Stati Uniti, lasciandosi dietro la famiglia americana. «Boston era durissima, gelida e costosissima. Un hamburger costava 50 centesimi e spesso saltavo i pasti (…) Presi un master in Economia, ma volevo un dottorato e non ci riuscii ». Di Ann e di Barack, in quel 1964, neanche una parola.
Aveva una struggente nostalgia, non della famiglia — forse la seconda, fu detto — lasciata alle Hawaii, ma della sua Africa. «È difficile avere notizie qui del mio Kenya», lamenta in quegli anni lontanissimi dall’informazione globale di oggi. Decise di tornare a Nairobi, trovando lavoro con la Shell, ma la sua vita si consumò nell’alcol.
Si sposò ancora, perse due posti di lavoro, tentò di tornare negli Usa, dove incontrò il figlio in un aeroporto, fra un volo e l’altro, scattando quella foto commovente, dove il ragazzino in t-shirt bianca si aggrappa al braccio del padre sorridendo felice a quell’uomo che non lo aveva voluto e del quale lui aveva sognato, come scriverà nelle memorie I sogni di mio padre. Che in realtà erano i sogni del figlio. Morirà in un incidente d’auto, ubriaco.
È quella foto che il Presidente troverà appesa nella casa dello zio, nel villaggio africano da lui visitato nel 2015, insieme con istantanee del padre e del nonno, il cuoco e domestico dei padroni coloniali che lo frustava se sbagliava le tabelline.
Ma se Obama seppe tornare al villaggio dei suoi antentati, nel Centro Schomburg di Harlem per sfogliare il faldone delle lettere di Barack sr non ha mai voluto andare. Ci andrà quando non sarà più presidente, rispondono vagamente dalla Casa Bianca, e i maliziosi hanno sempre letto in questo rifiuto la sua paura di essere ricollegato a “Radici” africane troppo vicine per i gusti dei razzisti e dei fanatici che ancora oggi, come ha insinuato anche Trump, sospettano che sia nato in Africa.
obama dopo la strage di orlando
Ma Barack jr sarebbe potuto andare dopo il 2012, dopo la rielezione che lo aveva messo al sicuro da polemiche politiche strumentali. Se non ha mai voluto andarci forse la spiegazione è più profonda e più umana. È il dolore mai rimarginato del bambino in t-shirt bianca aggrappato al braccio di un padre che lo abbandonò due volte.
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