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Vittorio Zucconi per la Repubblica
Figlio del nuovo mondo immateriale di Internet quanto Donald Trump è l’anziano campione del vecchio mondo materiale del cemento e delle banche, Mark Zuckerberg si alza a frustare da Facebook il nuovo presidente twittarolo per la sua politica anti immigrazione. E riaccende le speranze, forse le illusioni, che sia lui, non i logori, smarriti “pro” di partito, il futuro anti-Trump.
Le prossime elezioni saranno un duello tra Facebook e Twitter. Molto più dei veterani e dei professionisti della politica politicante, dei candidati, deputati, senatori aggirati e umiliati dall’“Effetto Trump”, il settuagenario dal ciuffo a coda d’anatra è vulnerabile di fronte a giovanotti, poco più che ragazzi, come il trentaduenne creatore di Facebook.
Sono uomini, e donne come quelle che hanno allagato le strade della città americane il giorno dopo il torvo discorso di insediamento, che non rispondono ad alcuna logica di partito, non devono baciare la mano di finanziatori, non chiedono poltrone e possono parlare, ogni ora del giorno e della notte, ai più di 85 milioni di “amici” in tutto il mondo che Mark ha sulla propria pagina personale.
Ed è stato dalla propria pagina che Zuckerberg, che vanta una ricchezza privata calcolata a 52 miliardi di dollari, quasi venti volte quei 3 miliardi millantati dal Donald, ma mai comprovati con le dichiarazioni dei redditi sempre segrete, che è partita la bordata contro il Nazionaltrumpismo.
LA PROPRIETA DI ZUCKERBERG ALLE HAWAII
Non ha scritto niente di violento nè di insolente, il giovanotto, e si è lasciato «qualche speranza che Trump si ammorbidisca» ma fa considerazioni che discendono dalla storia, dalla natura, dalla essenza profonda degli Stati Uniti. E dalla propria vicenda personale. Ebreo di origine, discendente di immigrati da Austria, Polonia e Germania, sposato con la figlia di profughi cinesi e vietnamiti, Zuckerberg, con un figlio dal dna inestricabile, è l’incarnazione di quella «nazione di immigrati della quale tutti possiamo beneficiare, valorizzando i talenti di coloro che vogliono vivere fra di noi e contribuire con il loro lavoro », scrive.
Il sottinteso politico del “post” di Zuckerberg, abilmente infilato fra scenette familiari di lui, euroamericano ebreo che tenta goffamente di impastare involtini primavera con la moglie Priscilla Chan per il Capodanno cinese, diventa visibile quando concede la necessità di «salvaguardare la sicurezza della nazione», come qualsiasi comiziante ripeterebbe, ma a condizione che non si innalzino muri, «un’iniziativa che sta preoccupando molti di noi», perché troppo brutale, offensiva e generica. «Dobbiamo tenere aperta la porta per i profughi e per coloro che chiedono il nostro aiuto». Già lo scorso anno, in aprile, aveva parlato contro «le voci della paura che si stanno levando e chiedono muraglie. Ci vuole coraggio per respingere la paura».
Naturalmente è più facile essere coraggiosi quando si dispone di un portafoglio da 50 e più miliardi e la propria posizione sociale e finanziaria non è minacciata da disperati disposti ad accettare qualsiasi paga per qualsiasi lavoro, ma la presa di posizione dell’ex studente universitario e campioncino di scherma che abbandonò Harvard al secondo anno, si differenzia sempre più da quella dei suoi colleghi neo miliardari di Silicon Valley.
Molti si sono fatti intimidire da Trump, come anche i pavidi leoni dell’industria automobilistica già dimentichi della pioggia di miliardi lanciati da Obama per salvare GM e Chrysler, ora Fca, e sono accorsi a un incontro alla Casa Bianca per ascoltare la lezione e deporre la loro arroganza ai piedi di qualcuno persino più arrogante di loro.
donald trump muro con il messico 4
Non Zuckerberg, che ha rifiutato l’invito e continua, insieme con i suoi micromanifesti politici pubblicati fra immagini della cucina e foto del cagnolino Beast, un Grand Tour degli Stati americani, per parlare a folle di giovani – i “Millennials” - quelli che non hanno votato nè per Hillary nè per Donald e sono rimasti profughi di Bernie Sanders.
Ne ha visitati già venti e dunque gliene mancano ancora trenta, escludendo territori e isole come Puertorico o Guam, e certamente non viaggia come piazzista di un prodotto, Facebook, che ha superato il miliardo e 800 milioni di clienti e si sta espandendo come ninfee nel lago della Rete.
Lui ha vagamente negato di avere alcuna ambizione politica, come Trump aveva fatto per anni, ma nel deserto di leader, di figure carismatiche, soprattutto di giovani che possano interpretare l’ansia, se non il disgusto, che la maggioranza degli elettori e dei cittadini – se si deve credere ai sondaggi – provano per il Donald e per la sua predicazione xenofoba e “unamerican”, non americana, come dice ancora Mark, le investiture informali possono essere più irresistibili di quelle formali.
A 32 anni, con 52 miliardi nel portafoglio, Zuckerberg dovrà trovarsi un’altra ragione di vita e di attività non remunerata, essendo i problemi dei mutui e della bollette per lui e famiglia ampiamente superati e dunque la noia incombente. Gli 85 milioni di “amici” di Mark Facebook contro i 20 milioni di “seguaci” di Trump su Twitter, che il palazzinaro predilige perchè in 140 caratteri premia il semplicismo sloganistico del suo messaggio, possono essere il profilo di una nuova battaglia politica nel mondo della post politica.
Faccine contro ovetti, giovani multietnici contro anziani spaventati, nel nome di due Americhe diverse fra loro, divise fra chi ha bisogno di immigrati per creare programmi e app, come i signori della Valle del Silicio in California e chi teme la concorrenza dello straniero. Dimenticando che tutti, qui, sono, o sono stati, stranieri. Anche Trump, “nato” Drumpf.
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