GOMORRA
Paola Zanuttini per “il Venerdì di Repubblica”
Era primavera, in un capannone industriale abbandonato (che nella realtà è una fabbrica di gru in piena efficienza) si distribuiva ai capopiazza la coca a prezzi stracciati: strategia di mercato decisa da Genny Savastano per fare le scarpe a Ciro Di Marzio, visto che tutta la stagione finale di Gomorra, la quinta, ruota attorno al conflitto da tragedia greca, o shakespeariana, a volte da sceneggiata, dei due nemici-amici.
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Location fosca, piena di rimbombi e potenziali agguati, come ci hanno insegnato le quattro stagioni precedenti e quasi un secolo di gangster movie. «Non so quante sequenze abbiamo girato in questi posti, ma vagheggiamo sempre una scena surreale con i due protagonisti che si dicono: "Oh, ma vedersi in un bar, mai?"» ridacchiava Claudio Cupellini, che ha diretto, alternandosi con Marco D'Amore nel doppio ruolo di protagonista-regista, gli ultimi dieci episodi.
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Erede del terzetto registico degli esordi, nel 2014, formato con Stefano Sollima e Francesca Comencini, Cupellini mi spiegava come e perché si è deciso di chiudere la saga - nata da un'idea di Roberto Saviano, tratta dal suo omonimo e fortunatissimo romanzo e nella scia del film di Matteo Garrone - che ha ridefinito gli standard della fiction nostrana, la più famosa serie italiana nel mondo, piazzata al quinto posto nella classifica del New York Times fra le produzioni non americane più importanti del decennio 2010/2020, venduta in più di 190 territori e strapremiata da pubblico e critica.
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«Le storie hanno un arco, concordavamo tutti sul fatto che la traiettoria di Genny e Ciro era giunta a conclusione, anche dopo L'immortale. La prima cosa che ci siamo chiesti è stata se avevamo la voglia di una quinta stagione: il rischio era la stanchezza e l'eventualità di non lasciare un ricordo degno. Ma voglia, respiro e carburante interno c'erano ancora».
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A chi non ha seguito le 48 puntate precedenti può sembrare un linguaggio da iniziati. Brevi cenni per raccapezzarsi, quindi: sullo sfondo delle guerre di secessione e predominio nella periferia Nord e poi in tutta Napoli, Genny, interpretato da Salvatore Esposito, rampollo di un'eminente famiglia camorrista di Scampia, prima mollacchione poi supercarogna grazie a uno spietato apprendistato criminale, ha un rapporto di affetto struggente e atroce rivalità con il suo ex mentore e complice Ciro, interpretato da Marco D'Amore, personaggio complesso, solissimo, feroce, ma animato anche da sprazzi di umanità e da un personale codice del samurai.
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Per esempio, alla fine della terza stagione, in un regolamento di conti fra clan rivali su uno yacht si fa uccidere al posto di Genny, che tiene famiglia, e proprio per mano sua, suscitando lo sgomento e i singhiozzi dello stesso Genny e del fedele pubblico. Ma da L'immortale, spin off/midquel cinematografico della serie, diretto da D'Amore, abbiamo scoperto che non è morto, la pallottola ha solo sfiorato il cuore: non è finito in fondo al mare, è segretamente riparato in Lettonia per curare i traffici con i russi di un altro boss napoletano.
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È da questa agnizione che parte la quinta serie. Sentimenti velati Ormai siamo in autunno e, dopo aver visto in anteprima cinque nuovi episodi (la stagione parte su Sky il 19 novembre e in streaming su Now) in cui Genny trama una vendetta contro Ciro di cui non si possono anticipare le ragioni, ma che colpisce per la sua sconfinata perfidia, si accende un sospetto: questa amicizia antagonista non avrà dei connotati amorosi non proprio fraterni?
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E non è che tutti gli scatafasci, i fiumi di sangue, le sfide all'O.K. Corral si potevano evitare dando libero sfogo a una passione che, per mere evidenze statistiche, allignerà anche fra manovalanza e dirigenza della criminalità organizzata più machista?
La domanda non è impertinente perché gli head writers Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli, che lavorano alla serie dalla prima stagione, ammettono: «Questa corrente un po' strana è un sottotesto presente fin dall'inizio: Ciro poggia le mani sul collo di Genny che spara per la prima volta. Noi avevamo anche proposto un episodio in cui questo sentimento si concretizzava, ma non se n'è fatto niente».
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Di una latenza gay in realtà non si è mai parlato ad alta voce perché, spiegano gli sceneggiatori, il dibattito su Gomorra si è sempre sviluppato su altri temi, ovvero: i danni all'immagine di Scampia e Secondigliano e gli eventuali influssi imitativi esercitati sul pubblico. Fra chi accusa la serie e chi la difende sostenendo che semplicemente fotografa e denuncia il male, non se lo inventa, il tema dell'amore-odio fra Genny e Ciro confondeva troppo le acque.
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È proprio il rapporto con la realtà la chiave del successo nazionale e internazionale di Gomorra (all'estero Gomorrah). Racconta Fasoli: «Nella prima stagione, con Saviano e Stefano Bises provammo a fare un adattamento che riprendeva fedelmente la struttura del libro, ma non funzionava, allora ci concentrammo su un'unica parte, quella sulla faida di Secondigliano, adottando il punto di vista dei cattivi.
Negli anni, il ruolo di consulente di Saviano è via via diminuito, solo in Italia si usa la formula "da un'idea di", ma, soprattutto all'inizio, il suo nome è stato un brand fondamentale. E di quel brand si è sempre mantenuto il rapporto strettissimo con i fatti, gli ambienti, i personaggi reali».
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Come dice Cupellini, Gomorra "fictionizza" la realtà, in molti episodi traspaiono avvenimenti di cronaca come, già nella prima stagione, l'omicidio della giovanissima Gelsomina Verde, estranea alla camorra, torturata e uccisa perché non sapeva e quindi non poteva rivelare dove si nascondeva un suo ex fidanzato ricercato da un clan.
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Dice Ravagli: «Ho lavorato anche in altre serie, come La squadra, ma questa ricerca sul campo non era proprio contemplata, mentre per Gomorra noi abbiamo sempre parlato con assistenti sociali, giornalisti, gente dei quartieri. E l'altra differenza fondamentale è che le serie sulla criminalità prima di Gomorra avevano un intento educativo, con la polizia che combatteva il male e lo sgominava. Noi abbiamo scelto un'altra strada, perché i territori disastrati e le mafie esistono ed esistevano indipendentemente dalle serie televisive».
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Come dire che non si cancellano né si risolvono i problemi d'Italia con un lieto fine. Altri elementi che hanno fatto la differenza: il napoletano periferico e mutante (con sottotitoli) che all'inizio aveva fatto storcere il naso ai piani alti della produzione dove fu definito «un universo concentrazionario» (i copioni sono scritti in italiano e poi tradotti, e tra sceneggiatori e registi nessuno a parte D'Amore è di Napoli o dintorni); la profondità e lo stile che sono ormai un marchio di fabbrica; la pressoché totale assenza di poliziotti, investigatori, forze dell'ordine salvo un magistrato testardo, perché soggettività e centralità sono tutte dei criminali; la capacità di allargare lo sguardo sugli scenari camorristici, dagli scissionisti al centro storico e alle paranze dei bambini, dal riciclaggio e dai clan dell'entroterra a uno sguardo retrospettivo sul taglio imprenditoriale e il delirio populistico impresso dalla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, morto in sconcertante contemporanea con la fine delle riprese.
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BUONA STAMPA ESTERA
Con ovazioni che gli autori non riuscivano neanche a immaginare («Potrei ascoltare gli italiani tutto il giorno: anche quando minacciano di uccidersi l'un l'altro suona come una serenata. Io dico: se a qualcuno non piace Gomorrah, 'fanculo» ha scritto Andrew Collins sul Guardian) la serie è stata inevitabilmente paragonata dalla stampa internazionale alle atmosfere di Scorsese, a The Whire, ma soprattutto a Il padrino e ai Sopranos.
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Il New York Times gli riconosce «un gradevole gusto internazionale» e scusate se è poco. Le Monde arriva a dire che davanti a certe scene di preparazione degli omicidi bisogna tenersi alla sedia per quanto sono crude. Poi ribattezza Ciro, che diventa Cirio, come i pomodori pelati, perché sbagliare i nomi italiani è una prerogativa della stampa francese.
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Di nuovo The Guardian, che considera il maggior pregio della serie la capacità di alternare lo sguardo fra le vicende di famiglia tipiche di ogni clan e film di mafia e i sommovimenti che agitano i soldati, la manovalanza: quel contropotere che, a ogni nuova generazione di basisti da moto e da discoteca, minaccia l'autorità dei capi.
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Se al governatore della Campania Vincenzo De Luca «l'operazione furbesca» di Gomorra,ha provocato l'orticaria - ha dichiarato: «tu devi proporre l'immagine della realtà e della realtà campana, di cui fa parte anche la camorra, ma non puoi proporre lavori che, al di là delle intenzioni, oggettivamente rischiano di proporre modelli negativi» e «addirittura di mitizzare i delinquenti» - Ilda Boccassini, quando era ancora in magistratura, la pensava diversamente: «Io sto dalla parte di Gomorra, che indaga il male per superarlo.
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Stefano Sollima (e gli altri registi) e gli attori si sono assunti una responsabilità immensa, con consapevolezza e talento. Tutti loro hanno avuto un coraggio nient' affatto scontato: hanno messo in scena il male e lasciato a noi il compito di decidere dove sta il bene». Inutile dire che gli sceneggiatori si sono incorniciati l'elogio. È in queste due posizioni il dilemma di Gomorra.
E c'è della verità sui due fronti. I poliziotti napoletani (ma anche i vecchi camorristi) riconoscono nella sfrontatezza di certi giovani arrestati frasi e codici mutuati dalla serie. E sono abbastanza convinti che il potere, le auto veloci, la violenza disinvolta, insomma l'aura criminale diffusa da Gomorra faccia più presa del destino infame dei protagonisti: morte violenta, galera, latitanza in un bunker, paranoia costante.
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La cosa surreale è che di questi tempi a Scampia i clan se la passano piuttosto male. Spazzati i vertici, la manovalanza si è ridotta. E anche le paghe: da mille a duecento euro a settimana. Con gli ordini telefonici e le consegne a domicilio il parco di vedette e pusher da strada si è ristretto. Gomorra è una Scampia sparita.
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Quanti ciak sotto al Vesuvio Ma nelle frange giovanili più malmesse di Napoli c'è chi si riconosce negli antieroi della serie. E chi identifica i personaggi con gli attori che li interpretano, costringendoli quindi a funamboliche uscite dal ruolo. Lo scrittore e conduttore di Radio3 Piero Sorrentino che, ai tempi, aiutò Saviano con un editing informale e amicale di Gomorra, nota che in La paranza dei bambini l'autore parla di un personaggio pettinato come Genny Savastano e questo mix di realtà, fiction e autocitazione nuoce non poco alla sospensione dell'incredulità rispetto al libro e a chi l'ha scritto.
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«Il problema è che la capacità di penetrazione della serie non è paragonabile a quella del romanzo: i camorristi hanno visto Gomorra, ma non l'hanno letto. E fra i due prodotti c'è una notevole distanza».
Ma intanto i cattivoni hanno fatto qualcosa di buono: il numero di settembre di Passenger, la rivista-libro geografica di Iperborea è dedicata a Napoli e ospita un saggio di Peppe Fiore sull'impatto prodotto dalla lavorazione di cinque stagioni di Gomorra sull'immagine cinematografica della città, sulla formazione di nuove maestranze e attori, sull'occupazione in generale e perfino sul recupero della devianza giovanile.
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Mai partite così tante produzioni di tv e di cinema. E quando una città che ha la forma di un palcoscenico diventa un set può aprirsi a ogni storia. Di malavita o dolce vita.