Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport
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Per capire ma anche per farmi un po’ male, sono andato a riascoltare la sua voce registrata della nostra ultima telefonata, esattamente un anno fa, 12 dicembre 2019, 9 e 41 del m attino. 81 minuti e 13 secondi di amabile conversazione, pretesto l’uscita in libreria della sua biografia, Quanto dura un attimo (Ed. Mondadori), scritta per e con la moglie Federica (“Senza di lei non l’avrei mai fatta”). Lui nella sua fattoria in compagnia dei suoi animali, cani, pony, oche e galline. Come fosse una seduta spiritica. Ho ascoltato e ho capito. Ho capito che non bastava. Che bisognava tornarci sopra, che il caso “Paolino Rossi” non lo potevi liquidare con la doverosa eruzione del giorno dopo, di una o cento pagine.
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Funziona così con i morti di successo, i coccodrilli sono spesso già apparecchiati, si va giù a tavoletta con le iperboli, ma la voglia dentro è quella di andare oltre. I vivi hanno fretta di tornare alla vita. La morte di Maradona è stata sconvolgente, un brivido in tutto il pianeta, quella di Paolo Rossi cova un confessabile segreto. Basta saperlo spiare. La sua vera grandezza. Detesto la parola umiltà. Sa di superbia. Paolino non era umile, era innocente. Inverosimilmente, scandalosamente innocente. Nell’Italia di oggi, uno come lui era un freak.
FUNERALI PAOLO ROSSI
Un’anomalia socialmente riprovevole. Uno fuori dall’andazzo. In un Paese dominato dallo schiamazzo del vacuo. Delle ideologie divise in bande, prima e della vanità infondata sul vano, dopo. Nullità bercianti che ammazzerebbero Woody Allen, e in qualche caso ci hanno provato, per meno di un quarto d’ora di celebrità. Paolino era come l’amico Gaetano, altro esclamativo campione del mondo, Scirea. Paolino e Gaetano non hanno mai esibito nulla di esclamativo, nemmeno quando alzavano la coppa in mondovisione. Nemmeno quando sono morti e nemmeno quando la morte è stata atroce. Uno, Paolino, che poteva andare a morire solo con la sua amata donna, i suoi adorati figli, i cani, i cavalli, le oche e le galline.
PAOLO ROSSI
Lo ascolto. Ascolto la sua voce soave, la conoscete tutti, i corpi se ne vanno, le voci restano. Sono ovunque, nella testa, nei muri e nelle cose. La voce di Paolino non ha quasi corpo, non ha testosterone, è la voce da cherubino che trovi nei cori implumi delle parrocchie di provincia. Una voce mai scontrosa, mai minacciosa, mai urlante, mai maligna e mai allusiva, a volte pigra o reticente, sì, a volte banale. Era una voce che non usava mai le parole e nemmeno i silenzi per far male, era una voce da cui non ti dovevi mai difendere. La bellezza di Paolino era la sua totale assenza di ego. Tatuato solo dal dono di un’elementare disposizione al dovere. Con quel suo cognome così genialmente qualunque, Paolino ha sempre fatto quello che doveva.
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mai farsi domande, senza mai protestare o lamentarsi, senza iscriversi a nessun partito, meno che mai a quello della vanità. Che fosse il chierichetto, il calciatore, il padre, il compagno, l’amico, l’opinionista o il contadino. Che fosse il morente, anche quando il tumore gli mangiava le ossa. Lui era sempre Paolino. Gli davano i compiti e lui eseguiva. Senza menischi e senza padrini. Quando si trattava di portare il feretro di Bearzot, lui, insieme a Zoff, Tardelli, Bruno Conti e gli altri, di quello che era stato il suo padre putativo. Paolino non aveva bisogno di essere un pazzo o un disperato per essere un samurai. Di italiani come Paolino ne trovi a migliaia. I tanti samurai che stanno anonimi dietro quelle finestre, sotterrati nella corvée del giorno dopo giorno, a fare le cose che vanno fatte. Testardi senza gloria.
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La grandezza di Paolino, il segreto che si è portato chi sa dove, non erano i tre gol al Brasile, ma i tre menischi infranti, quando stava appena nascendo come calciatore e la storia sembrava già finita. Ricominciare da zero, mesi di calvario, ma senza croci e senza bestemmie, senza darsi addosso per tanta zella. Non so se lui ha letto Borges, ma certo Borges ha letto lui e tutti quelli come lui quando scriveva che “un destino non è migliore di altri, ma ognuno deve compiere quello che porta in sé”.
Paolino portava in sé il senso naturale del dovere, delle cose che andavano fatte. Che si tratti di diventare campione del mondo o raccogliere la cacca di Bleki, il suo cagnolino. Con la stessa enfasi. Zero. Paolino non ha fatto altro. Come il soldatino di piombo, claudicante, senza una gamba e a volte spaventato, ma senza mai arretrare.
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Ascolto questa sua voce così gentile. Quando ti dice quello che ti deve dire e quando ride perché c’è da ridere. L’uomo senza ginocchia. L’uomo squalificato perché troppo avulso dalla mischia. Defilato, non per abulia, ma per difetto di strategia. Perché Paolino non ha la più pallida idea di essere quello che è. Non l’ha mai avuta, anche quando subiva lo stalking dei titoli e delle lusinghe. Su uno come Paolino forse non scrivi un romanzo epico, ma certo una magnifica storia.
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