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    RI-LEGGETE “UBIK”. IL GRANDE ROMANZO SULL’ACIDO - L’INTRODUZIONE DI EMANUELE CARRERE ALLA NUOVA TRADUZIONE DEL LIBRO DI PHILIP DICK (“STUPEFACENTE, VITALE. UN INCUBO E UNA RIVELAZIONE”) E LA TELEFONATA DI UN JOHN LENNON STRAFATTO ALL’AUTORE NEL 1969 PER CONGRATULARSI DI AVER SCRITTO L’EQUIVALENTE LETTERARIO DEL BRANO "LUCY IN THE SKY WITH DIAMONDS", LE CUI INIZIALI SONO UN OMAGGIO ALL’LSD…


     
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    Introduzione di Emanuele Carrere a “Ubik”, di Philip Dick (Oscar Mondaori), pubblicata da “La Stampa. TuttoLibri”

     

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    È una notte del 1969. Philip K. Dick riceve una telefonata da Timothy Leary, che chiama dalla stanza d’albergo di John Lennon in Canada, dove i Beatles si trovano in tournee.  Lennon e Leary, sonoramente strafatti, hanno appena letto il suo ultimo libro, Ubik, trascinati da un misto di entusiasmo e timore reverenziale, che nel senso greco del termine sono ardori alquanto affini.

     

    «È questo! Esattamente questo» singhiozza Lennon che strisciando sulla moquette dal fondo della stanza fino al telefono, ha afferrato la cornetta per congratularsi con Dick di aver scritto il grande romanzo sull’acido, l’equivalente letterario dell’album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, in particolare del brano Lucy in the Sky with Diamonds, le cui iniziali sono un omaggio all’LSD.

     

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    In seguito Dick si chiederà spesso se abbia avuto realmente a che fare con Lennon e Leary o non piuttosto con due burloni che si spacciavano per Lennon e Leary, se non addirittura con qualcosa di molto più minaccioso di due burloni: speculazioni simili sono il piatto preferito di un paranoico.

     

    Una decina d’anni più tardi, il suo collega polacco Stanislaw Lem, autore di Solaris, scrisse su di lui un lunghissimo articolo, sostenendo che l’abisso fra Dick e gli altri autori di fantascienza fosse paragonabile solo a quello che separava il Dostoevskij di Delitto e castigo da tutti gli altri autori di romanzi d’indagine: ricorrendo a un genere subalterno e puerile, Dick esprimeva verità segrete, visionarie, immense sul mondo moderno e, più in generale, sulla condizione umana, cosa che non gli era mai riuscita tanto bene come con Ubik.

     

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    Più o meno in quello stesso periodo, Dick ricevette la visita di uno dei suoi editori francesi, Patrice Duvic, il quale dichiarò solennemente di ritenere Ubik - ancora Ubik - uno dei cinque libri più importanti mai scritti. «Wait a minute, Patrice: intende dire uno dei cinque libri migliori di fantascienza…». Ma no, insistette l’altro: uno dei cinque libri più importanti della storia umana, insieme alla Bibbia, al Tao Te Ching, al Libro tibetano dei morti, e poi a un quinto che Dick non ricordava più.

     

    Quelle lodi iperboliche lo avevano turbato. A lui non sarebbe mai venuto in mente di considerare Ubik una delle sue opere migliori. Più che il libro ricordava l’orribile periodo della sua vita in cui l’aveva scritto, quando ogni cosa andava disgregandosi, nel suo terzo matrimonio e nel suo cervello. Era il 1968, lo stesso anno dell’uscita del capolavoro di Kubrick, 2001: Odissea nello spazio. Dick, come chiunque, lo aveva visto, e a impressionarlo di più era stata la scena in cui l’astronauta sconnette il computer di bordo HAL 9000, colto da follia omicida.

     

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    Via via che i circuiti vengono staccati, la voce sintetica, cosi fredda e pacata, si fa sempre più grave, come un disco suonato alla velocità sbagliata, e per assurdo sempre più umana e patetica. HAL, inizialmente consapevole di quanto sta accadendo, supplica di essere risparmiato.

     

    A poco a poco, il cervello elettronico all’interno del quale l’astronauta porta a compimento la sua opera di morte perde il contatto con i propri componenti. La sua mostruosa intelligenza artificiale l’abbandona, eppure ciò che perdura e proprio quello che passa per essere una peculiarità dell’uomo, la cosa meno accessibile a una macchina: la sofferenza. Poi anche la sofferenza scompare, o perde la facoltà di esprimersi. Non si sentono più che frasi incoerenti, frammenti di canzoncine sfuggiti dalle unità di memoria devastate.

    Daisy, Daisy, give me your answer do…

    Poi più niente.

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    E a questo che fanno pensare i libri scritti da Dick alla fine degli anni Sessanta. E a questo che fa pensare in particolar modo Ubik: un tracollo psichico, la corsa erratica di una cavia da laboratorio resa pazza da un esperimento dal protocollo incomprensibile, un trionfo delle tenebre, del caos e dell’entropia. Il che non impedisce che i commenti estatici e atterriti di John Lennon, Timothy Leary, Stanislaw Lem e Patrice Duvic siano autentici.

     

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    Commenti che da parte mia sottoscrivo a grandi lettere… con la sola minuscola, occorre ammetterlo, per quello di Duvic, che doveva avere un po’ esagerato con le canne. Ubik è un libro basilare, stupefacente, vitale. Un’esperienza di lettura unica e traumatica, un incubo e nello stesso tempo una rivelazione.

     

    In quanto a me, è il primo romanzo di Dick che ho letto, ancora ragazzo, e da cui non mi sono mai ripreso. Molto tempo dopo, ho scritto una sua biografia. E molto tempo dopo ancora - quasi trent’anni, una follia… - mi ritrovo a scrivere cinque prefazioni per le nuove traduzioni italiane dei suoi romanzi più importanti. Non so proprio da dove cominciare - a meno di ricopiare me stesso, cosa che preferirei evitare il più possibile - e allora provo a organizzare ognuno dei cinque libri intorno a un tema: la teologia e più precisamente la gnosi per Le tre stigmate di Palmer Eldritch, l’I Ching per L’uomo nell’alto castello, l’intelligenza artificiale per Gli androidi sognano pecore elettriche?, la musica e la malinconia per Scorrete lacrime, disse il poliziotto. E, per Ubik: la droga.  

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