Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” - Estratti
arrigo sacchi cover
Arrigo Sacchi mostra con orgoglio un leccio secolare, l’albero più alto e antico nel giardino della sua villa, che quasi fa ombra ai bagolari e ai salici piangenti. Nonostante i 77 anni compiuti lo scorso primo di aprile, cinquanta dei quali vissuti da allenatore, una avventura che cominciò proprio in questi giorni nel 1973, è ancora lui.
L’allenatore che più di ogni altro ha segnato e cambiato la storia del calcio moderno, un italiano che in cuor suo non si sente tale, ma che purtroppo o per fortuna lo è. «Un Paese votato al tatticismo, dove solo il singolo e non il bene collettivo sembra avere importanza, dove contano più le conoscenze della conoscenza».
È la sua analisi sociopolitica. Ma è anche calcio, perché per lui il calcio è ancora vita, come dimostra «Il realista visionario», appena scritto con Leonardo Patrignani. Quasi un trattato di filosofia personale, applicabile non solo allo sport, con contributi importanti. Non aspettatevi mezze misure, non è il tipo. Sconti per nessuno, neppure a sé stesso. Per questo continua a far discutere ancora oggi con i suoi giudizi e le sue ossessioni, anche per questo gli si vuole bene. «Una vittoria senza merito non è una vera vittoria, ma questo è un concetto che l’Italia, il regno dei sotterfugi, non capirà mai».
arrigo sacchi berlusconi
Cominciamo dalla dedica?
«L’ultima volta che ho sentito il presidente fu due mesi prima della sua morte. Ripetemmo la nostra gag. Io che gli confesso di non riuscire a dargli del tu, lui che mi insegna come fare. “Si metta davanti allo specchio, e dica a voce alta: Silvio Berlusconi è uno stronzo, Silvio Berlusconi è uno stronzo”. Era davvero convinto che potesse funzionare».
Ci ha mai provato?
«Mai. Quel giorno, nel salutarmi, mi disse: Arrigo chiama quando vuoi, in fondo sei una delle poche persone del mondo intero che non mi hanno mai dato dello stronzo. Non l’ho più fatto, e ancora me ne dispiace. Sentivo che era stanco. Ho voluto molto bene a quell’uomo. Gli devo tutto. A differenza di molte, troppe persone, che oggi fingono di non averlo mai conosciuto, io non me ne dimentico».
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È per questo che una volta arrivato al Milan disse a Franco Baresi di ispirarsi al compianto Gianluca Signorini?
«Per anni, quella frase fu considerata uno scandalo. Ma non la rinnego affatto. Anche il povero Gianluca aveva fatto un passo alla volta. All’inizio, nel Parma, lo chiamavo “lancetti”, perché faceva sempre lanci lunghi che costringevano me e il magazziniere ad andare per boschi alla ricerca della palla. L’unico vero scandalo è credersi intoccabili, e non capire che si può imparare da chiunque. Sa chi fu il primo che comprese il senso di quel che intendevo? Franco Baresi, il mio capitano. Una persona di straordinaria umiltà, un campione vero».
arrigo sacchi van basten
È stato il calciatore che più ha amato?
«Non mi costringa a fare classifiche, non è giusto. Ho voluto bene a tutti i miei giocatori, nessuno escluso».
Anche a Marco Van Basten?
«Qualche anno fa, le cose che disse in una intervista mi ferirono. Ma non gliene voglio male. Non mi sembra di essere stato duro con lui. Semplicemente, lo trattavo e lo valutavo come gli altri. Forse non gli andava bene questo. Ma non me lo ha mai detto. Tra noi non c’erano problemi».
Insomma. «Arrigo mi ha rotto i cogl...». Era la primavera del 1991. Sentita a Milanello, mentre Marco entrava nella sala del biliardo, con le mie giovani orecchie da praticante giornalista.
(Ride) . «Beh, forse qualche tensione c’è stata. Lui era convinto che noi italiani fossimo tutti ignoranti. Una volta gli risposi. Caro Marco, gli dissi, guarda che noi vincevamo i campionati del mondo quando voi olandesi stavate ancora sott’acqua. Lo feci ridere, e ne fui felice. Era una persona e un atleta fragile. Durante una partita di precampionato della nostra prima stagione, gli dissi che non serviva che andasse incontro alla palla a centrocampo. Vacci vicino, senza cercarla, e poi taglia dentro, che così ti picchiano di meno».
silvio berlusconi arrigo sacchi e i tre olandesi gullit rijkaard van basten
Le diede ascolto?
«No, e lo spaccarono. Era un fuoriclasse assoluto, un po’ testardo. Quando ritornò in Italia dal primo infortunio, venne a vedere Milan-Napoli, il famoso 4-1 per noi. Mister, mi disse, non avrei mai creduto che in così poco tempo lei riuscisse a fare un gioco così poco italiano».
Con gli altri due olandesi invece furono rose e fiori fin da subito?
«Pensi che quando andai per la prima volta a vedere Frankie Rijkaard prima di convincere Berlusconi ad acquistarlo al posto dell’argentino Claudio Borghi, operazione che come noto non fu facile, non mi fece una grande impressione. Ma forse quella volta ero stato poco attento».
Arrigo Sacchi che si distrae?
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«Avevo già vinto un campionato, ma continuavo a essere un po’ in soggezione dell’ambiente. Mi sembrava ancora tutto più grande di me. Con il direttore sportivo Ariedo Braida, andammo a Rotterdam per una partita della nazionale olandese. Pioveva a dirotto. Lui mi disse, Arrigo vai pure sotto la tettoia, io invece mi metto in prima fila. Sono proprio gentili, pensai. Invece Ariedo, che è uno straordinario uomo di calcio ma anche un bon vivant, non lo aveva fatto per la mia salute. “Ti metti lì, e prendi nota di tutte le belle ragazze in tribuna. Poi all’intervallo me le indichi, che le voglio vedere”. E da buon soldato, invece delle mosse di Rijkaard, segnai sul taccuino il posto dove sedevano le donne più attraenti. Per fortuna, ci furono altre occasioni».
È giusto considerare Ruud Gullit il simbolo di quella squadra?
«Ruud è forse la persona che più di tutte ha capito e accettato l’ossessione che mi ha sempre divorato. Per il calcio, si intende».
il documentario Arrigo Sacchi. La favola di un visionario.
Cosa rese quel Milan la squadra italiana più forte di sempre?
«Aggredivamo, e costruivamo. In un Paese dove in qualunque campo si tende a vivacchiare, noi eravamo l’eccezione».
Perché l’Italia le piace così poco?
«Rimaniamo sul calcio, in fondo siete voi giornalisti che ogni due per tre lo definite come una metafora della vita. Siamo un Paese che si illude di essere grande, nel suo intimo consapevole però di contare poco o nulla. Vedo commentatori, ex giocatori ed ex allenatori che in televisione sostengono che tutto è eccezionale, fantastico, ma poi a microfono spento sostengono l’opposto».
Oggi lei come guarda le partite?
«Con l’audio a zero. Il nostro declino nasce dalla propensione ad accontentarci del risultato raggiunto con il minimo sforzo, senza guardare mai alla partita, al domani, a quel che poi resterà. Dovremmo sforzarci di pensare in modo collettivo e propositivo. Invece aspettiamo gli eventi e gli avversari, seguendo la nostra indole eterna, poi cerchiamo di uccellarli, come diceva sempre un suo collega».
il documentario Arrigo Sacchi. La favola di un visionario.
Suvvia, Arrigo. Quel giornalista aveva un nome e un cognome, che lei ricorda bene. Si chiamava Gianni Brera, uno dei più grandi di sempre.
«D’accordo, era lui. Ero al secondo anno di Milan. Un giovedì prima di una partita con il Napoli vado a cena con mia moglie al ristorante Riccione, senza immaginare che quello era il giorno in cui si trovava con i suoi amici. Me li manda uno ad uno al nostro tavolo. Mi fanno tutti la stessa domanda. Domenica chi marca Maradona? E mi fanno dei nomi, Tassotti, Maldini, Baresi. “In qualche modo, ci avete preso tutti” rispondo. Quando l’ultimo si è allontanato, la mia Giovanna, che non è mai venuta a vedere una nostra partita mi chiede: “Scusa ma questi non lo sanno che tu giochi a zona?”».
Quale fu la sua risposta?
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«Che lo sapevano bene, ma avendo paura di tutto quello che era una novità, rifiutavano l’idea. Pur di non riconoscere qualcosa di diverso dalle loro convinzioni, sostenevano l’insostenibile. Brera era un grande scrittore, ma avevamo due idee di calcio e di Italia incompatibili tra loro. Non a caso, erano i giornalisti all’epoca più giovani che capivano bene ciò che stavo cercando di fare».
(...)
Perché il suo giudizio su Leao è così severo?
«Non sopporto chi non sfrutta appieno il proprio talento. Quel ragazzo ha qualità evidenti, ma sta raccogliendo meno di quanto potrebbe. Nel calcio, la testa va allenata non solo per colpire la palla».
(...) Cosa pensa della crisi del suo Milan?
SACCHI BARESI GULLIT VAN BASTEN
«Mandare via Paolo Maldini è stato un atto contro natura. Prendere 6-7 nuovi stranieri in una sola volta invece è un azzardo, soprattutto in una squadra con pochi italiani. Hanno bisogno di tempo per inserirsi, e per capire». Come vuole essere ricordato Arrigo Sacchi? «Come una persona schietta che si è impegnata molto per migliorarsi e per migliorare gli altri».
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