Gianmaria Tammaro per Dagospia
La seconda parte – non stagione: parte – di “The OA”, disponibile dal 22 marzo su Netflix, è pazzesca. Più e meglio della prima, probabilmente. Perché prende tutto quello che era successo più di due anni fa, lo rimette insieme, lo mescola, e va oltre.
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Creata dall’attrice e sceneggiatrice Brit Marling (che interpreta anche OA, la protagonista) e da Zal Batmanglij (che cura anche la regia degli episodi), racconta la storia di una ragazza, scomparsa per anni, prima cieca, poi di nuovo vedente e infine ritornata nel mondo e in grado di “saltare”: di passare, cioè, da una vita a un’altra. Non si capisce né come, né perché. La ragazza, OA, ha poi la capacità straordinaria di raccogliere attorno a sé persone, di fare proseliti anche se la sua non è – contrariamente a quello che pensano gli altri – una religione, e di farsi seguire. Anche nelle cose più assurde e imbarazzanti.
the oa cast e creatori
Ma non è la storia ciò che definisce questa serie. È come, e l’ha detto anche Jason Isaacs che interpreta il cattivo, tutto sia così profondamente pazzesco e allucinante da diventare straordinario, bellissimo ed esaltante. È un thriller, ma è anche uno sci-fi. Ci sono delle indagini, sì, ma c’è anche una buona dose di drama. Il cast, almeno fino al giorno prima del debutto della seconda parte, era quasi sconosciuto. Il pubblico ha dovuto imparare da solo, man mano, quello che sarebbe successo e chi avrebbe visto.
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“The OA” è una di quelle serie pensate, letteralmente, per il binge watching: una volta che hai iniziato a vedere il primo episodio (e in totale ce ne sono otto), non puoi più fermarti. È ossessionante, sconvolgente, terribile. Ha dei picchi incredibili, magnificamente scritti. Altri, invece, pessimi, quasi da b-movie, che scivolano via in una complicatezza non necessaria e, proprio per questo, nel paradosso, accettabile.
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“The OA” è un’esperienza, e il talento che hanno dimostrato la Marling e Batmanglij nell’unire più racconti, più piani temporali, nel non fermarsi all’ovvia e banale evoluzione di una storia, è una cosa abbastanza inedita, anche per un mercato come quello di oggi, dove si produce tanto (troppo) e ci sono moltissime possibilità per lo spettatore.
Forse, viene tutto dalla spensieratezza e dalla libertà creativa che hanno benedetto il progetto; forse, come ha detto sempre Isaacs, è perché gli autori vengono dagli indie movies, e non hanno mai fatto televisione. Forse, invece, è l’insieme di anni e anni di altre serie tv, di “Twin Peaks” di David Lynch, in parte di “Sense8” di Lana Wachowski; e di tante altre storie passate come fulmini sul piccolo schermo e rimaste – poco, tanto, talvolta anche ossessivamente – nella memoria collettiva.
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“The OA” è uno dei titoli meno decifrabili, chiari e lineari che ci siano su Netflix, e proprio per questo è anche uno dei suoi contenuti migliori: rispecchia quell’anima, quell’intenzione, di essere liberi e di testare continuamente, e lo fa dando la massima fiducia ai registi e agli scrittori. In questa seconda parte, tutti – più o meno – interpretano più versioni del proprio personaggio. Ci sono creature astrali, antichissime, e ci sono elementi di sci-fi al limite: pensati proprio per sconvolgere lo spettatore. E chi pensavi fosse il cattivo, il centro di ogni cosa, in realtà è solo una figura marginale, non importante, una battuta in più sul copione.
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Puzzle, rompicapo, indagini: c’è tutto. C’è ogni cosa, ogni sfumatura di tutto. Il finale è contemporaneamente uno dei più belli e dei più deludenti di sempre: è un colpo di testa improvviso, quasi inaspettato, dove viene aggiunto ancora un altro piano temporale e dove alla storia viene aggiunta un’altra sfoglia. Forse, “The OA” non avrà una terza stagione – pardon: una terza parte. E forse, non dovrebbe averla. Forse certe cose che sono successe in questi episodi – come dice anche il Guardian – sono state la goccia che hanno fatto traboccare il vaso.
Eppure, non riusciamo a non consigliarvela: evitate, ecco, le recensioni dettagliatissime; evitate gli articoli, i pareri degli amici, qualunque cosa; e guardatela. Date a “The OA” una possibilità. Perché non è mai stata pensata per incantare la critica, o per ricevere premi (certo, quello è un collaterale piacevole); ma unicamente per dare un’esperienza nuova allo spettatore, per incatenarlo alla sedia, e costringerlo – talvolta letteralmente – ad andare avanti, fino alla fine.
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