Gianmaria Tammaro per Dagospia
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Anche se è stata cancellata dopo appena una stagione, “Wayne”, serie di Youtube Premium creata da Shawn Simmons, è una delle produzioni più particolari e interessanti di quest’anno. Per certi versi, ricorda “The end of the f***ing world” di Netflix: racconta la storia di un ragazzino e di una ragazzina, interpretati da Mark McKenna e da Ciara Bravo; e poi racconta il loro amore non-amore, come finiscano per conoscersi e per affidarsi l’uno all’altra nel corso del loro viaggio. Ma è anche una fotografia – in questo caso dell’America, nel caso di “The end of the f***ing world” del Regno Unito – delle nuove generazioni. Dei guai che passano ogni giorno, e di quanto sia difficile inserirsi, trovare il proprio posto nel mondo e crescere.
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“Wayne” è un coming-of-age, cioè una serie di adolescenti che diventano adulti. Ma è pure estrema, eccessiva, una favola oscura piena di musica metal, di occhi pesti e di schizzi di sangue. Alcune intuizioni, come una delle trame secondarie che vede i fratelli e il padre di lei, Del, dare la caccia ai due ragazzini, sono abbastanza banali e dimenticabili; alcuni personaggi, poi, sono assurdi e così astratti che diventa impossibile persino prenderli sul serio (e proprio per questo, paradossalmente, funzionano).
Ma ci sono anche delle trovate, tecniche e narrative, molto interessanti. Per esempio: Wayne e Del si mettono in viaggio da una parte all’altra degli Stati Uniti per ritrovare la macchina del padre di lui; sono diretti in Florida, e partono dal Massachusetts. La fotografia – quindi l’immagine, la sua composizione; il modo in cui la luce la colora – cambia. Passa da tonalità più scure e cupe e fredde, a colori più accesi e brillanti. E così la progressione del racconto si sovrappone alla progressione della luminosità e della colorazione.
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I due protagonisti, che solo a una prima occhiata possono sembrare bozzetti di stereotipi già visti, si rivelano nel corso delle puntate (e ce ne è una, in particolare, tutta incentrata su Del, sulla sua famiglia e su sua madre, che è semplicemente perfetta). E crescono insieme alla storia. E anche quando tutto sembra già deciso, “Wayne” trova il modo di cambiare pelle, di trasformarsi, e di abbandonare il tracciato percorso dalla maggior parte delle serie per adolescenti. La narrazione principale viene messa in pausa, e per un momento – che può durare anche episodi interi – l’attenzione si sposta su piccole cittadine, su altre comunità, sul lavoro degli immigrati clandestini e sulla sessualità dei più giovani.
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Forse, ecco, in tutto questo rumore e in tutto questo eccesso, “Wayne” non riesce a trovare una sua identità chiara, qualcosa che la renda immediatamente riconoscibile; e poi, anche se non è tratta da un fumetto, mantiene una dimensione particolarmente esplosiva, in cui le immagini e le parole lavorano insieme (e questa è una cosa positiva, perché mostra il lavoro che è stato fatto a monte, e quanto questa serie sia il risultato, la sintesi, di più elementi e di più linguaggi).
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E poi c’è la musica. Una selezione straordinaria di brani, che si inserisce perfettamente – senza mai esagerare; senza appesantire le scene – all’interno del racconto. Anche la colonna sonora riesce a settare un crescendo all’interno della serie, e a rispecchiare lo stato d’animo dei protagonisti. Wayne è magro, nervoso, sempre pronto a fare a cazzotti. Ha i capelli scuri e la pelle bianchissima. Quando sentiamo la chitarra elettrica, sappiamo che è sul punto di esplodere. Del è intelligente, piena di speranza, intensa. Entrambi sono spezzati nel profondo, e entrambi cercano un nuovo equilibrio. Per un po’ di tempo, l’uno lo trova nell’altra e viceversa; e alla fine riescono anche a costruire un rapporto che non sia fatto solo di tira-e-molla o di incomprensioni.
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Il loro amore e la loro storia sono così profondi e sinceri, che viene difficile limitarsi al banalissimo ciclo narrativo di un inizio, di uno svolgimento e di una conclusione. “Wayne”, e non solo perché non è stata rinnovata per una seconda stagione, resta aperta. Una serie che non si conclude. Contrariamente a “The end of the f***ing world”, non cerca il finale ad effetto, non cerca un punto di non ritorno; si mantiene sempre al limite, sempre un passo indietro. È un diamante grezzo e ancora opaco, e proprio per questo, forse, più bello di tante gemme immacolate e già tagliate alla perfezione. Peccato, ora, non sapere come sarebbe potuto diventare.
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