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    SESSISMO E VIOLENZA NEL RAP? DARIO SALVATORI SUL CASO EMIS KILLA, IL CUI CONCERTO DI CAPODANNO A LADISPOLI E’ STATO ANNULLATO A CAUSA DEI TESTI CHE INNEGGIANO AL FEMMINICIDIO – “LUI SI DIFENDE DICENDO CHE ‘NEL RAP ESISTE UNA COSA CHIAMATA STORYTELLING. IO RACCONTO FATTI CHE ACCADONO’. BRAVO. PECCATO CHE ESISTA DA 140 ANNI. LA VERITÀ È CHE STIAMO ALLEVANDO CANTANTI E MUSICISTI SENZA TALENTO. NON HANNO VOLUTO STUDIARE MUSICA, NON AMANO LA GAVETTA, SI NASCONDONO FRA MASCHERE, TATUAGGI, NUDITÀ INESPRESSIVE. SONO I SALTAFILA DELLA MUSICA” – LA STAFFILATA A LAZZA  – VIDEO


     
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    Dario Salvatori per Dagospia

     

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    Ma era proprio sicuro Alessandro Grando, sindaco di Ladispoli, di sganciare 325 mila euro (di cui 200 mila per Emis Killa e Guè) per la notte di Capodanno? La sua risposta è stata imbarazzante: “In questo modo si evita di far fuggire i giovani dalla nostra cittadina.”. Però. Sono migliaia i giovani e non giovani che tutti i santi giorni fanno i pendolari da Ladispoli a Roma e viceversa.

     

    Forse aveva fatto i conti con i gusti musicali dei più giovani attraverso una ricerca di mercato. Chissà. Il femminicidio non ha nulla a che vedere e non si fermerà certo facendo bisboccia l’ultimo dell’anno. No, piuttosto bisogna capire perché i nostri rappers cercano di emulare i grandi del rap, al 95% americani, neri, con una situazione territoriale molto diversa dalla nostra.

     

    Come si può rincorrere un genere che lo scorso luglio festeggiava i cinquant’anni? Non esiste un comparto musicale durato così tanto: non c’è riuscito il free jazz (che pure poteva contare su fior di  musicisti, da Cecil Taylor a Ornette Coleman); non c’è riuscita da dodecafonia, che fece impazzire gli accademici; non ci riuscirono i futuristi, che possedevano gli “intonarumore”.

    dario salvatori foto di bacco dario salvatori foto di bacco

     

    Un genere musicale innovativo  diventa quasi sempre derivativo e difatti i rappers nostrani sono diventati padri di famiglia, hanno appeso al chiodo il cappellino, sono diventati rigorosamente mainstream e molti fra loro frequentano con piacere la tv. Rispetto al Capodanno sfumato Emis Killa è convinto  che “Nel rap esiste una cosa chiamata storytelling. Io interpreto, invento, racconto fatti che accadono.” Bravo.

     

    Peccato che lo storytelling esiste da centoquarantanni nel cinema, nella musica, sia in quella popolare ancor di più nel pop. Negli anni Cinquanta c’era Ciccio Busacca con i suoi “quadri”, poco più tardi Matteo Salvatore, ognuno con i problemi della propria regione. Oggi c’è  Ascanio Celestini.

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    Lo storytelling era fra noi anche negli anni Venti del Novecento. “Balocchi e profumi”(1929), dramma sentimentale, con una conclusione evidente, quella del tardivo pentimento della madre sconsiderata: “Per la tua piccolina/non compri mai balocchi/mamma, tu compri soltanto/i profumi per te.”. Una canzone che non ha risparmiato nessuno, da Gennaro Pasquariello  ad Anna Fougez, fino a Mina e a Renato Zero che la cita “Profumi, balocchi e maritozzi”.  E che cosa è “Il ragazzo della via Gluck”(1966) di Adriano Celentano in versione verista: “Passano gli anni/ma otto son lunghi/però quel ragazzo ne ha fatta di strada/torna e non trova gli amici che aveva.” E che dire di “My way”(1969) di Frank Sinatra, che canta “l’autunno della mia vita”, con un testo tradotto in inglese proprio per lui da Paul Anka (l’interprete di “Diana”): “Morsi più di quello che potevo mangiare”. Già lo immaginiamo.

     

    E se i rappers italiani hanno poco a che vedere con i colleghi americani (si fa per dire), che sono sono cresciuti nel Bronx o a Watts, periferia di Los Angeles, loro arrivano dalla middle-class, stretti nella loro cameretta. La verità è che stiamo allevando i cantanti e musicisti senza talento di tutti i tempi, consegnando a costoro denaro e popolarità, autorevolezza e una vecchiaia serena costruita  a base di clic.

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    Non hanno voluto studiare musica, non amano la gavetta, si nascondono fra maschere, tatuaggi, nudità inespressive. Sono i saltafila della musica. Quei tre o quattro che hanno studiato musica lo dicono a mezza bocca. Prendiamo Lazza (Jacopo Lazzarini), il milanese ventinovenne che lo scorso  è arrivato secondo al Festival di Sanremo. Dice di aver frequentato il conservatorio. Perché frequentato? Il conservatorio non si “frequenta”, non è il bar sotto casa o solo perché è a quattro passi. Lazza si è iscritto al Liceo Musicale di Milano che “propone un rapporto di collaborazione educativo con il conservatorio Giuseppe Verdi”.

     

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    Morale: lui non si diplomato né al liceo né al conservatorio. Peccato che nel resto dell’Europa ci si “laurea” in piano o in qualsiasi altro strumento, da noi ci si “diploma”. Interessante. E poi perché tutti si fermano all’ottavo anno? Di Morgan lo sappiamo. Abbandonò perché il padre si era suicidato e dunque era lui a dover portare i soldi in casa, lavorando in un piano-bar. A quindici anni?  E che razza di posto era? Gli versavano dei contributi? Probabilmente esiste la malia dell’ottavo anno. Anche per Lazza. Un autentico club.

     

    Sono stato molto amico di Armando Trovajoli, il grande pianista di jazz, compositore e forse sarebbe stato un grande concertista. E in qualche modo lo è stato. Mi dava dei consigli che avevano l’oro in bocca: “Guarda, se vuoi capire se un pianista è uscito dal conservatorio, guarda se  utilizza la cadenza plagale, ovvero la sottodominante tonica. E’ più morbida, delicata, meno risolutiva. Di solito viene impiegata a metà brano per creare una variazione timbrica alla cadenza iniziale”. Ad averne.

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