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    "SLEEPY JOE" PROVA AD AMMANSIRE I CINESI - NEL SUO PRIMO DISCORSO ALL'ASSEMBLEA DELL'ONU, BIDEN HA OFFERTO UNA SPECIE DI TREGUA A XI JINPING: "NON STIAMO CERCANDO UNA NUOVA GUERRA FREDDA" - PURE I TALEBANI CHIEDONO DI PARLARE, COGLIENDO UN PO' DI SORPRESA TUTTI - COVID, CAMBIAMENTO CLIMATICO, PARTITA NELL'INDO PACIFICO: IL PRESIDENTE AMERICANO METTE SUL TAVOLO I PUNTI CALDI, MA SA CHE È SUL FRONTE INTERNO DELLA RIPRESA CHE STA PERDENDO CONSENSI...


     
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    1 - BIDEN ALL'ONU: «DECENNIO DECISIVO, NON VOGLIAMO LA GUERRA FREDDA»

    Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera

     

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    Joe Biden offre una specie di «tregua nella competizione» alla Cina. Assicura che gli Stati Uniti non vogliono imbarcarsi in una riedizione della Guerra fredda: «siamo tornati al tavolo della comunità internazionale per voltare pagina».

     

    Paradossalmente sembra essere la stessa posizione dei talebani che in tarda serata hanno inviato una lettera al Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, chiedendo «di intervenire nella seduta plenaria». Una mossa, forse una provocazione, che ha colto un po' tutti di sorpresa. Tra gli altri, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha commentato: «Servono i fatti. I talebani devono ancora dimostrare di rispettare i diritti delle donne».

     

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    Ieri il presidente americano ha tenuto il suo primo discorso all'Assemblea dell'Onu. Ha parlato per 35 minuti, sforando il quarto d'ora assegnato a ogni oratore. Questa volta ha risparmiato sulla retorica. Si è sforzato, invece, di tenere insieme «partner», «alleati» e anche «avversari», indicando le «due emergenze planetarie»: la pandemia e il climate change, naturalmente.

     

    Biden ha anche accennato a un paio di proposte concrete, che svilupperà oggi, nel summit sulla pandemia a livello di Capi di Stato e di governo: «Abbiamo già stanziato 15 miliardi di dollari per contribuire alla risposta globale al Covid-19. Occorre fare di più».

     

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    In arrivo altre risorse anche sul fronte del cambiamento climatico: «Lavorerò con il Congresso in modo da raddoppiare gli aiuti per la transizione energetica dei Paesi in via di sviluppo».

     

    Le cifre esatte su cui ragionare dovrebbero arrivare a breve: ma a occhio si sta parlando di circa 5-6 miliardi di dollari all'anno che potrebbero diventare più di 15, mobilitando capitali e investimenti privati. Forse non è molto, ma è comunque un inizio concreto, è la conclusione implicita di Biden.

     

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    Le misure, il pragmatismo ostentato dal leader americano discendono da uno schema politico a questo punto molto chiaro: «Per la prima volta negli ultimi vent'anni, gli Stati Uniti non sono in guerra. È finito il tempo delle guerre senza fine, è venuto il momento di puntare sulla diplomazia. Sia chiaro: noi competeremo vigorosamente sui mercati, difenderemo i nostri interessi vitali e i nostri valori fondamentali. Ma useremo la forza militare solo come ultima spiaggia».

     

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    Il primo messaggio, dunque, è per la Cina, mai evocata esplicitamente: «Non stiamo cercando, lo ripeto, non stiamo cercando una nuova Guerra fredda». E qui si apre come una fessura logica e politica nel ragionamento statunitense. Da una parte Biden insiste: «Siamo pronti a collaborare con tutti, anche con quei Paesi con cui siamo in forte disaccordo».

     

    Dall'altra parte, però, il numero uno della Casa Bianca traccia linee precise sulla mappa geopolitica: «Dobbiamo puntare gli occhi sull'Asia, per amplificare la diffusione dei nostri valori, per sviluppare i commerci, garantire la libertà di navigazione».

     

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    Tutte cose che tradotte significano: un cordone di sicurezza per contenere il dinamismo della Cina. Del resto il discorso all'Onu sembra quasi una parentesi formale nell'intenso lavorìo per costruire quella che Pechino ha definito «la Nato del Pacifico», un'operazione guidata dagli americani con Giappone, Australia, India e ora anche Regno Unito.

     

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    Però è oggettivamente complicato chiedere a Pechino di collaborare, mentre si mette in piedi una gabbia per imbrigliarne la spinta. Ma è così. Nel pomeriggio Biden ha visto il premier australiano, Scott Morrison; poi il britannico Boris Johnson alla Casa Bianca.

     

    Infine venerdì 24 faccia a faccia con l'indiano Narendra Modi e con il giapponese Yoshihide Suga, a margine del vertice Quad (Stati Uniti, Giappone, India e Australia). E l'Europa? Il presidente americano chiede ai vecchi alleati di condividere il peso della lotta mondiale al coronavirus e ai cambiamenti climatici, ma sembra proprio escluderli dalla partita nell'Indo-Pacifico.

     

    2 - LE AMBIZIONI DI UN LEADER

    Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera

     

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    Un'America che per la prima volta in vent'anni arriva all'Onu senza essere in guerra. E che, dopo l'era Trump, torna ad abbracciare la logica della cooperazione con gli altri Paesi, a credere nel lavoro comune in organismi internazionali fino a ieri disprezzati dalla Casa Bianca repubblicana.

     

    Nel suo esordio sul podio del Palazzo di Vetro Joe Biden ha cercato di convincere il mondo e gli alleati che quella che torna oggi sulla scena internazionale non è l'America First conosciuta negli ultimi anni.

     

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    I toni sono certamente cambiati e i valori democratici e di tutela di diritti civili e umani universali sono diversi da quelli di Trump. Biden è sincero quando dice di voler tornare alla guida di sfide per l'ambiente e la lotta contro il coronavirus, ma le priorità del suo Paese negli ultimi anni sono cambiate. Con lo spostamento del baricentro degli interessi dall'Atlantico e dall'Europa all'Asia e al Pacifico, ma non solo.

     

    Per cancellare la sensazione che la sua sia una «politica estera per il ceto medio» che ridimensiona gli impegni internazionali e la presenza militare nel mondo per concentrare più risorse sulla soluzione dei problemi interni, Biden ha evocato tutti i temi dell'internazionalismo democratico.

     

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    Ma non c'è dubbio che il leader della nazione polarizzata di oggi, ferita dall'assalto al Congresso del 6 gennaio, divisa anche sulla credibilità del risultato elettorale, debba preoccuparsi della difficile situazione interna assai più che del ruolo planetario - che pure rimane - degli Stati Uniti.

     

    La novità è, che per motivi diversi, una situazione simile la sta sperimentando anche la Cina con Xi Jinping sempre più concentrato sulle riforme del capitalismo per ridurre le diseguaglianze, sulla lotta con giganti tecnologici diventati a suo avviso troppo potenti e sullo sviluppo del mercato interno, mentre della Belt and Road Initiative tanto enfatizzata per anni non si parla quasi più.

     

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    Con i relativi investimenti in opere pubbliche all'estero che negli ultimi anni sono crollati. Abbiamo visto anche un'altra prima assoluta: un presidente che sale sul podio dopo essere stato accusato da un grande alleato storico come la Francia di averlo pugnalato alle spalle.

     

    Biden ha scelto di ignorare la questione in attesa di smussare i contrasti in un colloquio con Macron. Ma, anche se la nuova alleanza Aukus e i sottomarini nucleari all'Australia catalizzano l'attenzione internazionale, non c'è dubbio che negli incubi notturni del presidente oggi non c'è il leader francese ma Joe Manchin: il senatore di origine italiana (il nonno americanizzò il cognome che era Mancini) del West Virginia che, insieme a qualche altro parlamentare centrista del partito democratico, può mettere su un binario morto il (costoso) piano di rinascita economica e sociale elaborato dalla Casa Bianca.

     

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    Il forte calo del gradimento di Biden nei sondaggi non dipende dalla sua politica estera (l'area meno divisiva negli Usa) e, in fondo, nemmeno dal ritiro da Kabul: una pagina nera ma tutti lo volevano.

     

    Dipende dalla fine dell'illusione che Biden potesse porre fine alla pandemia con un colpo di bacchetta magica e una vaccinazione rapida ma solo parziale della popolazione e dalla sensazione che anche il piano di rilancio dell'economia e di costruzione di una rete di protezione sociale per i più deboli stia andando in frantumi.

     

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    Mentre a fine mese si chiuderà il rubinetto dei sussidi straordinari ai disoccupati per il Covid e tra una decina di giorni, in assenza di un accordo parlamentare sull'aumento del tetto del debito pubblico (oggi rifiutato dai repubblicani) il governo, esauriti i fondi, dovrà decretare uno shutdown che bloccherà molte attività e pagamenti (stipendi compresi).

     

    Dall'altro lato del Pacifico anche Xi Jinping, che pure governa con piglio imperiale, teme la fragilità di un Paese che invecchia rapidamente, con un sistema economico fortemente indebitato e il crollo del gigante immobiliare Evergrande che rischia di diventare la Lehman Brothers della Cina.

     

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    Dietro le affermazioni taglienti di una diplomazia cinese sempre più battagliera c'è la realtà sottolineata di recente dal politologo Ian Bremmer: negli ultimi 3 anni gli investimenti infrastrutturali di Pechino all'estero sono crollati del 90% rispetto ai tre anni precedenti.

     

    C'è solo da sperare che le difficoltà economiche interne, anziché incoraggiare retoriche bellicose, spingano le due superpotenze a tornare a collaborare almeno sui tavoli - ambienti e vaccini - sui quali hanno interessi comuni.

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