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Giulia Zonca per “la Stampa” - Estratti
Un diamante, proprio come una Olimpiade, non è per sempre. Larissa Iapichino ha portato il suo da Bruxelles a Firenze dopo una notte speciale in cui tre azzurri hanno vinto la finale di Diamond League, il circuito più importante per i meeting di atletica. Fabbri nel lancio del peso, Tamberi nel salto in alto e Iapichino nel lungo.
Tre nomi pesanti e tre atleti che hanno vissuto Olimpiadi complicate.
«È una chiave di lettura, ma per me il diamante non è un riscatto, non è una risposta.
Le Olimpiadi sono archiviate, lontane. Guardo sempre avanti. Mi tengo la foto meravigliosa di noi tre insieme, con Gimbo e Leo euforici».
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Olimpiadi archiviate da quarta, con che insegnamento?
«Mi hanno formata: so che non devo ritenerla una brutta prestazione, non ne sono soddisfatta ma non è il risultato che mi ha fatto pensare, è proprio l'esperienza. Ho iniziato a sognare i Giochi da bimba, all'asilo. Li ho aspettati, immaginati, ci sono arrivata in forma solo che poi certe gare sono di testa e non di gambe. Sono stati strani».
In che cosa le Olimpiadi rispondevano ai racconti dei suoi genitori e in che cosa sono completamente diverse?
«Lo spirito olimpico è proprio come mi è stato descritto. Una piccola magia: stare circondata da stranieri però dentro una comunità, con i tuoi idoli che lì sono come te.
Poi sti Giochi li avevo fatti troppo fiaba, li aspettavo talmente da tanto che li ho idealizzati. Sono stati un confronto con la me bambina e ormai sono un'altra persona. Adesso li ho vissuti, ai prossimi niente favole».
Lei in pedana è il ritratto della grinta, a Parigi si è definita svuotata. Ha capito perché?
«Ci ho ragionato a lungo, solo che non serve. Ho messo via quei giorni con la consapevolezza di essere comunque uscita da una situazione tosta. Ci sono certi piccoli problemi che tornano e li devo affrontare. Ancora non ho trovato la mia identità e lo so che l'atletica italiana mi considera una veterana, ma ho 22 anni e devo accettare di avere tanto da migliorare, capire bene chi sono. Direi che devo ancora imparare a navigare e per quello serve tempo».
A 22 anni ci si aspetta molto da lei perché è figlia di Fiona May, due argenti olimpici ai Giochi proprio nel lungo, perché la allena suo padre, Gianni Iapichino, che era anche il tecnico di sua madre o succederebbe comunque?
«Ci so stare. Questa è la mia vita e i confronti non mi fanno paura. Sono la prima a sentirmi pronta senza esserlo fino in fondo, bisogna saper aspettare, aggiungere i pezzi necessari ad affrontare i diversi momenti. Nello sport ognuno ha un suo punto di maturazione, quello in cui sai gestire la personalità».
Giovani non considerati, giovani sotto pressione, giovani giudicati. Lei come vorrebbe essere trattata?
«Gli scontri generazionali esistono da sempre. Noi siamo nati in un mondo nuovo: globale, connesso, tecnologico, sentiamo sia lo stacco sia la pretesa. Chi, come me, ha avuto ogni mezzo a disposizione da subito sa quanto è alta l'aspettativa. Hai avuto il mondo senza sforzi ora rendi. Solita storia, ma noi ventenni, oggi, affrontiamo il contrasto a modo nostro. Intimo, senza rivoluzioni».
Affrontiamo un pettegolezzo che fa da tormentone alla sua carriera, così lo mettiamo via. È vero oppure o no che la presenza in contemporanea di papà e mamma sugli spalti durante le gare la agita?
«Non capisco perché c'è chi si diverte a guardare nella vita degli altri e a decidere pure che cosa ci succede dentro e quali sono i problemi. Non c'è senso in questa diceria».
Chiarito ciò. Come evolve il rapporto con un tecnico-padre?
«Per me è fondamentale lavorare con una persona che ha fiducia nelle mie capacità, che crede in me al di là del singolo risultato. Mi piace sperimentare e mio padre lo fa moltissimo, nutre la mia curiosità».
Esclude una esperienza all'estero?
«So che non rendo fuori dalla comfort zone. A Firenze c'è la quotidianità, l'università, le persone di sempre che mi aiutano a sentirmi ancora ragazzina e non mi fanno perdere lo spirito con cui ho iniziato».
larissa iapichinolarissa e gianni iapichino
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