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Dario Pappalardo per la Repubblica
Può l’arte raccontare il tempo delle grandi migrazioni? Può ricoprire ancora una funzione politica? A rispondere sarà quella che rischia di essere la mostra più interessante del 2017: “La Terra Inquieta”, ideata da Massimiliano Gioni e promossa da Fondazione Trussardi e Triennale di Milano, dove l’allestimento è in programma dal 28 aprile al 20 agosto.
Gioni, direttore della Biennale d’arte di Venezia 2013 e curatore del New Museum di New York, riprendendo il titolo da una raccolta del poeta caraibico Édouard Glissant, sta progettando un percorso con oltre quaranta artisti per mappare cambiamenti e fratture della geografia globale.
La lista dei partecipanti è da definire. Ma ci saranno nomi in arrivo dalle zone calde del mondo e star del contemporaneo, come Pavel Althamer e Steve McQueen, installazioni e soprattutto video. Spiega il curatore: «Lo scrittore Glissant ha dedicato molte pagine all’idea di mondializzazione: alla possibilità che culture diverse creino nuovi modelli di convivenza. Nella sua poetica c’è un miraggio di speranza, di coesistenza nella differenza.
Oggi a un surplus di immagini sull’immigrazione non corrisponde altrettanta comprensione del fenomeno. La mostra nasce da qui, guardando al Mediterraneo come mare di riferimento». Proprio mentre Alejandro Gonzalez Iñarritu propone di esporre in piazza Duomo a Milano un relitto dei migranti.
Gioni, come ha scelto il tema e gli artisti?
«L’attualità è stata più pressante di tutto. Oggi da molti paesi che erroneamente chiamiamo emergenti provengono tanti artisti che adottano il mezzo del reportage e del cinéma vérité: mettono in crisi il concetto di veridicità. Come sostiene il saggio The Migrant Image di T. J. Demos, gli artisti stanno creando immagini migranti che, più che presentare una verità semplicistica o sensazionalistica, cercano una rappresentazione laterale che restituisca la complessità dei fenomeni. Chi fa arte si pone di nuovo il problema della sua responsabilità rispetto agli eventi che cambiano il mondo».
Non c’è il rischio per l’arte di strumentalizzare un tema così caldo?
«La tattica dello shock, che è quella tipica dell’arte, in questo caso non regge. Certo, non si può fare una mostra del genere senza far vedere il traffico dei corpi. Per questo, nell’allestimento, ci saranno anche le foto del New York Times che hanno vinto il Pulitzer. Ma gli artisti, davanti a un tema così, hanno un approccio più pacato. Molte opere che ho scelto sono come dei documentari sentimentali. Si pongono l’obiettivo di far sì che lo spettatore si immedesimi nelle storie.
L’artista marocchina Bouchra Khalili, per esempio, invita i migranti a raccontare la loro odissea tracciando il percorso con le dita sulle mappe. Il video mostra solo la mano che segna i punti del viaggio; la voce parla fuori campo. Nelle foto di Yto Barrada, le persone dormono in una pausa dalla fuga. Phil Collins riprende un ragazzino ferito e in stato di shock. Allargando lo zoom, si scopre che viene fotografato da tanti reporter: così nasce l’industria della rappresentazione ».
Come si può evitare l’”effetto patinato” di tante mostre d’arte contemporanea?
«È un problema di cui sono cosciente. Il rischio vero, semmai, è che questa diventi una mostra noiosa, proprio perché priva delle facili seduzioni del patinato. Ci sono video che durano molto. Ma, accanto al rischio di spettacolarizzare e patinare, l’altro problema da risolvere è come raccontare storie personali e non masse anonime. Per questo, tanti artisti hanno scelto di lasciare la parola ai protagonisti. Solo così ci possiamo identificare e capire. La massa fa paura, l’individuo si comprende».
Ai Weiwei si è confrontato spesso con il tema dell’immigrazione con effetti “scioccanti”, come nella foto in cui posa come Aylan, il bambino siriano affogato nelle acque turche...
«Quella fotografia mi aveva abbastanza turbato. Poi la mostra al Jeffrey Deitch’s Wooster Street Space di New York, dove Ai Weiwei espone gli indumenti dei migranti lavati e restituiti a una nuova dignità, mi ha molto toccato. Mi piace l’aspetto dell’evocazione della storia attraverso gli oggetti reso celebre da Christian Boltanski in altri casi».
L’arte è tornata a essere politica?
«Ci sono artisti per cui la priorità non è attirare l’attenzione su di sé, ma sulle storie che propongono. È inevitabile che a un certo punto diventi anche una questione di etica. Cosa è lecito mostrare? Cosa è lecito guardare? Non si tratta più solo di fare arte, ma di prendere una posizione.
L’arte è politica quando trasforma il linguaggio e incoraggia lo sguardo critico. Quando scardina lo status quo della percezione della realtà. Ma questo può accadere anche dipingendo cieli e girasoli. Non tutta l’arte “politica” è critica della realtà: quella sovietica era solo consolatoria. Le opere d’arte che adottano temi politici in modo troppo diretto sono sospette».
Con Donald Trump l’arte in America cambierà? Nel mondo dell’arte c’era la percezione di quanto stava accadendo?
«Assolutamente no, tutti erano convinti che vincesse Hillary Clinton. Ma, spesso, momenti di crisi ispirano un’arte migliore. Oggi c’è un senso di urgenza che solo un mese fa sembrava non si percepisse. Le responsabilità degli artisti vanno al di là dell’intrattenere e del fornire sfondi per i selfie. Questa mostra, ora, vuole ricordarlo».
MASSIMILIANO GIONI
TIME ELEGGE TRUMP PERSONA DELL ANNO
LA BIENNALE DI VENEZIA BY GIONI
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