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ARTE DA FRIEZE-R - ZUPPA RADIOATTIVA E ALTRE DELIZIE, PARLA IL FONDATORE DELLA FIERA LONDINESE - SLOTOVER: “IL FUTURO? LA RISCOPERTA DI VECCHI MAESTRI DEL PASSATO. LA VERA ARTE È SEMPRE DI ROTTURA” - I NUOVI MECENATI? I COLLEZIONISTI ITALIANI GRAZIE ALLE LORO FONDAZIONI

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Alessandra Farkas per il “Corriere della Sera

 

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Mangereste una zuppa giapponese radioattiva? Dal 15 al 18 ottobre il pubblico che accorrerà a Regent’s Park per partecipare alla dodicesima edizione della Frieze Art Fair dovrà rispondere a quest’insolito quesito posto da due fratelli giapponesi — Tomoo e Ei Arakawa, alias United Brothers — che offriranno a tutti i visitatori una minestra fatta dalla madre con verdure coltivate a Fukushima, teatro del disastro nucleare del 2011.

 

Intitolato Does this soup taste ambivalent?, il progetto artistico-culinario (certificato come «sicuro e commestibile» dall’Associazione nipponica degli agricoltori) è una delle opere più provocatorie invitate alla kermesse d’arte contemporanea fondata a Londra nel 2003 da Matthew Slotover e Amanda Sharp (editori dell’omonima rivista): da allora si è affermata come uno degli appuntamenti più importanti del mondo dell’arte internazionale, insieme a Frieze Masters, nata nel 2012 e dedicata ai maestri del passato.

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«Quest’anno Frieze London conta oltre 160 gallerie di 25 Paesi e due nuove sezioni, Live e Focus, che si affiancheranno a Frieze Projects, Frieze Film, Frieze Sculpture Park e Frieze Talk», spiega il 46enne Slotover, insieme alla Sharp ospite fisso della prestigiosa classifica «Power 100» compilata da «ArtReview». E Frieze Masters, che si svolgerà dal 15 al 19 ottobre sempre a Regent’s Park, «ospiterà altre 120 gallerie».

 

Il vostro sito ufficiale promette numerose novità rispetto alle edizioni precedenti...

«Sarà una rassegna più interattiva, multidisciplinare e culturale delle fiere d’arte tradizionali, con tanti dipinti e sculture ma anche balletti, teatro, cinema e musica: una risposta a ciò che sta accadendo nel mondo dell’arte. Nick Mauss creerà un palco con una danza nuova ogni giorno.

 

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Jonathan Berger riesumerà inediti del leggendario Andy Kaufman. Tobias Madison cura un’istallazione con tecnologie sensoriali e microbiche dove il movimento dei visitatori sarà trasformato in luce. Cerith Wyn Evans inaugura nello zoo di Londra una performance e un lavoro dedicati agli animali. Mark Wallinger, vincitore del Turner, ha ricreato lo studio londinese di Sigmund Freud».

 

Frieze ha sempre avuto una predilezione per l’avanguardia. Ma cos’è avanguardia oggi?

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«È, ancora, qualcosa che cambia il nostro modo di vedere il mondo. La tipologia di opere che rientrano in questa categoria è vastissima per stile e contenuto. Gli artisti hanno un modo di guardare diverso e attraverso i loro lavori permettono a tutti di indossare lenti diverse. Quelli che odiamo di più all’inizio spesso sono i più bravi. La vera arte è sempre di rottura perché ripetere il passato non è mai un’opzione. È il problema di ogni artista: creare qualcosa di totalmente nuovo».

 

Non si rischia di essere fagocitati da un mercato troppo consumistico che tutto divora e distrugge?

«Il nostro è un mondo molto crudele e complesso, a causa della velocità delle comunicazioni globali che permette a uno studente cinese d’arte di sapere esattamente ciò che sta accadendo a Berlino. Spetta all’artista trovare il proprio ritmo e non farsi travolgere e bruciare dalla vertigine del sistema».

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Secondo alcuni la colpa è delle fiere d’arte e dei ricchi collezionisti, oggi più potenti dei critici.

«Il mondo dell’arte non è mai stato più democratico. I suoi protagonisti oggi sono tanti e tutti contano, non individualmente ma insieme. L’artista sostenuto da collezionisti ma non da critici o curatori non sfonda, proprio come l’artista che piace a critici ma non a musei e collezionisti. Oggi più che mai serve il consenso di gruppo.

 

Un deus ex machina come il critico Clement Greenberg, capace da solo di creare o distruggere una carriera, non potrebbe più esistere e questo è un bene, perché anche lui ha commesso tanti errori. E pure un Leo Castelli sarebbe impensabile in un mondo ben più vasto dove le persone da convincere sono tante».

 

Oggi basta però un clic su Twitter per trasformare uno sconosciuto in star...

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«Di fronte a audience così smisurate, il peso politico dell’arte e la nostra responsabilità di interpreti-messaggeri sono aumentati in maniera esponenziale. Ricordo la discussione avuta tre anni fa con un noto giornalista che, in piedi accanto alla scultura di un grande missile puntato contro il parlamento britannico, osava sostenere che la politica e l’attivismo nell’arte sono morti. L’arte con la A maiuscola prende sempre posizione sulla società che la circonda, benché oggi la politica non sia più solo globale ma anche personale, identitaria, sessuale».

 

È stato lei a scoprire e lanciare Damien Hirst?

«Insieme siamo cresciuti e abbiamo iniziato le nostre rispettive carriere. Lo intervistammo per il numero zero di “Frieze Magazine”, giudicandolo l’artista più interessante del momento per le sue opere radicalmente diverse e ambiziose: belle e disgustose insieme. Un’era straordinaria per l’arte cui lui ha contribuito moltissimo».

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È sorpreso dagli attacchi dei media contro di lui?

«È triste vedere artisti, che hanno dato tanto, venire fatti a pezzi per gelosia. Io preferisco focalizzarmi sulle grandi opere che ci hanno dato. È così difficile e inusuale creare un capolavoro che quando succede dovremmo festeggiare, non distruggere. È successo anche a Jeff Koons e Marina Abramovic. Eppure tra cent’anni saranno loro, insieme agli Hirst e agli Ai Weiwei, i classici studiati come interpreti della nostra era».

 

Quali sono i nuovi trend da tenere d’occhio?

«Viviamo nell’era post-trend di frammentazione estrema e scelte illimitate. Un tempo c’erano il concettualismo e il minimalismo. Oggi i generi sono mescolati e intercambiabili e, anche se è difficile etichettarli, sono tutti validi e contemporanei. Dopo il boom dell’arte post-internet, Frieze sta investendo molto sulla riscoperta di maestri del passato, oggi anziani o defunti, che hanno lavorato nell’ombra negli anni Sessanta e Settanta. Come Robert Breer, scomparso nel 2011, di cui riproporremo i Galleggianti nella sezione Live. E Franz Erhard Walther, settantacinquenne pioniere dell’approccio interattivo».

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L’era post-internet ci sta costringendo a guardare al passato per trovare il «nuovo»?

«L’aver investito troppo sugli artisti giovani e il prezzo astronomico che hanno raggiunto negli ultimi 10-20 anni spiega l’interesse per questa generazione di straordinari “vecchi”, costretti a insegnare nelle Accademie perché nessuno comprava il loro lavoro. Finalmente hanno i riflettori che si meritano».

 

L’Italia com’è rappresentata quest’anno?

«La parte del leone come al solito spetta a Gran Bretagna, Usa e Germania; ma anche l’Italia è ben rappresentata dalle gallerie Giò Marconi e Massimo De Carlo di Milano, dalla torinese Galleria Franco Noero, la Raucci/Santamaria di Napoli e la romana T293. E poi da artisti come l’agrigentina Rosa Barba e i comaschi Santo Tolone e Alex O. All’evento “Masters” esporremo Alighiero Boetti, Giovanni Anselmo, Giulio Paolini e Giuseppe Penone».

 

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L’arte italiana è viva e vegeta?

«La vostra cultura, che conosco bene, è estremamente individualista e questo è un gran bene per l’arte. Ma la situazione politica non aiuta. I vostri governi non danno una lira agli artisti, però vogliono mettere bocca su mostre e nomine di direttori di museo. Per fortuna l’Italia è anche la patria di straordinari collezionisti, i mecenati dell’era moderna grazie alle loro fondazioni: il futuro».

 

Chi sono i nuovi Medici?

«Il napoletano Maurizio Morra Greco e la torinese Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. Ma anche Prada, che presto inaugurerà l’attesissimo Museo d’arte contemporanea a Milano, e Nicoletta Fiorucci, che a Londra con la sua fondazione e a Stromboli con artist-in-residence promuove da anni l’avanguardia internazionale. E sempre a Londra, Valeria Napoleone, che ha una collezione fantastica e colleziona solo artiste donne».

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Che cosa pensa della Biennale di Venezia?

«Per ovvi motivi topografici, Venezia è il luogo più pazzo del mondo per una biennale. Eppure tutti ci vanno e vogliono andarci perché è e resta importantissima. L’ultima Biennale è stata una delle migliori grazie al talentuoso Massimiliano Gioni, che ha fatto miracoli con un budget davvero risicato».

 

@afarkasny