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ARTE NELL’HANGAR - ALLA BICOCCA DI MILANO LE FIGURE SMARRITE DI JUAN MUÑOZ - L’ARTISTA SPAGNOLO ERA DALTONICO E QUESTO SPIEGA PERCHÈ TUTTE LE SUE SCULTURE ABBIANO COLORI GRIGIO ANTRACITE O GIALLO SABBIATO

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Rocco Moliterni per “la Stampa”

 

L’Hangar Bicocca con i suoi enormi spazi da ex fabbrica (ha molti punti in comune con le Ogr torinesi, anche qui costruivano locomotive) sembra il luogo ideale per ospitare un’installazione «gigantesca» come Double Bind, realizzata nel 2001 da Juan Muñoz per la Turbine Hall della Tate Modern di Londra e mai più ricostruita: l’artista spagnolo morì, non ancora cinquantenne, nell’agosto dello stesso anno.

 

È difficile definire Double Bind, si può leggere come un «non luogo» metropolitano (un grande parcheggio con due ascensori che salgono e scendono) ma anche come una sorta di cattedrale post-moderna: con tanti altari al buio da cui improvvisamente spuntano figure umane come sorprese ora al balcone ora su una scala (una è l’autoritratto dell’autore).

 

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Si rimane affascinati, spiazzati e talora ingannati dalla propria vista, come nel buio delle chiese barocche spagnole davanti a un trompe l’oeil dove non sai ciò che è in rilievo e ciò che è solo dipinto.


Intorno a Double Bind, il curatore, nonché direttore artistico dell’Hangar Bicocca, Vicente Todoli ha costruito una mostra emozionante con 15 tra i lavori più significativi di Muñoz. Ad attenderci all’ìngresso ci sono Waste Land e The Wasteland, due differenti versioni della stessa opera del 1986. Il titolo alla T.S. Eliot (La terra desolata è il capolavoro del poeta) è dedicato ironicamente a un pupazzo di ventriloquo che guarda appollaiato su un muretto un pavimento di inganni ottici.

 

Il ventriloquo stesso è invece il protagonista di Ventriloquist Looking at a Double Interior, dove una figura umana seduta sempre su un muretto guarda due interni di un alloggio. Ci si rende conto dopo un po’ che si tratta in realtà della stessa stanza, in cui una poltrona ora è vista di fronte e ora di dietro.

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L’ossessione per questi spiazzamenti visivi sembra sia in parte legata alle vicende familiari dell’artista: sua madre amava di tanto in tanto cambiare la destinazione delle varie stanze degli alloggi in cui vivevano e a volte tornando a casa l’adolescente Muñoz dove prima c’era il salotto si ritrovava la camera da letto, e dove c’era la cucina magari la biblioteca. 

 

Il pupazzo e il ventriloquo rimandano anche a quel mondo circense che troviamo negli acrobati e nelle figure sospese di Hanging Figure, l’ensemble di installazioni create da Muñoz tra il 1997 e il 2000. Sono un omaggio al celebre dipinto di Degas Mademoiselle La La al Circo Fernando del 1879, con la trapezista vista dal basso.

 

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Viene anche in mente il bellissimo titolo di un film di Alexander Kluge, Leone d’oro a Venezia nel 1968, Artisti sotto la tenda del circo: perplessi. Quel film parlava di acrobati che cercavano, per attrarre il pubblico, numeri sempre più estremi. E qui vediamo artisti sospesi nel vuoto con il gancio alla gola che non sai se siano morti o vivi, nel secondo caso però sono di sicuro perplessi, come tutti i personaggi di Muñoz (quando non hanno i lineamenti orientali o quando mancano di lineamenti).

 

Inquietanti sono anche le figure di The Nature of Visual Illusion (1999) che parlano davanti a una lunga tenda che potrebbe essere un sipario e non sai se siano attori di qualche rappresentazione o semplici persone che s’incontrano e parlottano. A colpirti è il fatto che non abbiano i piedi: è come se questi fossero conficcati nel pavimento.

 

A non avere piedi o ad averli perduti in globi tipo le poltrone sacco di fantozziana memoria sono anche le figure di Conversation Piece (1996) talora collegate da sottili fili. A una situazione beckettiana (e anche a un’installazione di Calzolari al Castello di Rivoli) fa pensare quella scatola che come un trenino elettrico trasporta due persone in miniatura su una rotaia a forma ellittica sospesa nel vuoto.
 

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Altrettanto spiazzante è nel Cubo, lo spazio finale dell’Hangar, sovrastato da alte mura e da una sorprendente scala a chiocciola, l’installazione Many Times, con tutte quelle figure umane dai lineamenti orientali con i piedi conficcati nel terreno e lo stesso abbigliamento, una sorta di tela cerata da iconografia maoista.

 

Grazie anche all’architettura del luogo sembrano (impressione che non si aveva qualche anno fa alla retrospettiva di Muñoz al Guggenheim di Bilbao) detenuti che s’incontrano durante l’ora d’aria nel cortile di un carcere. Possiamo aggirarci anche noi tra le figure e viverne la stessa condizione.
 

Tutte le sculture di Muñoz, che siano di cartapesta, di resina o di bronzo, hanno colori grigio antracite o giallo sabbiato. Sono una precisa scelta stilistica, ma secondo alcuni proprio questa precisa scelta stilistica deriverebbe da una condizione esistenziale dell’artista: Muñoz era daltonico.

 

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Sia come sia l’artista spagnolo, con le sue figure perdute in spazi piccoli o grandi, tra mille inganni dell’occhio e della mente, riesce a rendere perfettamente la condizione esistenziale dell’uomo a cavallo tra il Novecento e il terzo millennio. Da un lato Beckett ed Eliot, dall’altro certi paesaggi o architetture alla Blade Runner. E a vedere la sua mostra pochi giorni dopo la Biennale di Venezia viene nostalgia per artisti capaci di interpretare in chiave così poetica i nostri giorni.

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