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Alessandra Mammì per http://mammi.blogautore.espresso.repubblica.it/
Se la storia dell’arte non fosse scritta da imbecilli Balthus avrebbe un posto d’onore nei sussidiari». Il bello di Jean Clair il più sofisticato, divertente e intelligente dei grandi pensatori reazionari dell’arte è che queste cose riesce a dirle con aria bonaria e pacifica. Lui che di Balthus fu amico. Lui che è tra i più grandi studiosi della sua opera. Lui che gli dedicò un'indimenticabile mostra a Venezia in Palazzo Grassi a pochi mesi dalla morte, oggi (23 ottobre 2015) è qui nelle sale delle Scuderie del Quirinale, all’anteprima del vernissage della grande mostra “Balthus” ( fino al 31 Gennaio). Jean Clair guarda e commenta.
In una chiacchiera ai limiti del confidenziale ci dice «Solo imbecilli potevano trattarlo come un eccentrico, isolato, erotomane. Lui non era isolato affatto, e qui si dimostra come lavorasse accanto all'amico Derain o Giacometti e all’interno di un continuo scambio di idee con poeti e scrittori da Artaud a Camus, in un milieu ricco di un’intensità intellettuale purtroppo oggi scomparsa. Balthus è la pittura. Se lei guarda questa mostra lo capisce, perché è ricca di rari disegni, lavori incompiuti, studi preparatori estremamente importanti e quasi mai mostrati».
balthus scuderie del quirinale
Nella piacevolezza del discorso si cade nella domanda sbagliata: «Professore li ritiene importanti perché svelano il processo mentale dell’artista?» Errore blu. Anzi due errori blu. Bonario ma feroce Jean Clair precisa : «Uno: non lo chiami artista, ma pittore. Due: è un processo materiale, di ricerca della qualità pittorica attraverso matite, colori, carta, tela. Lei è una di quelle persone ammalate di idee, ma quel che interessa Balthus prima dell’immagine, della narrazione è la pittura. Riesce a capirlo?».
Ci si prova. Balthus è ostico per noi contemporaneisti. Uomo fuori dallo spirito dei tempi, chiuso nella torre d’avorio di una pittura che si rifiuta di scendere a patti con il linguaggio contemporaneo, con la ricerca, con il mondo esterno. Nelle prime sale dedicate agli anni Trenta e Quaranta la qualità dei disegni e delle illustrazioni colpisce il cuore.
Così come alcune costruzioni di spazio che obbediscono a rigide geometrie e schemi di linee dove uomini e cose si inseriscono solo di sghembo grazie alle diagonali di un braccio o di una gamba piegata. E ancora... non si può restare indifferenti alla rigida eppur poetica armonia di corpi che sembrano schermi per esperimenti di colore.
Mondo rarefatto, atmosfere di tensione, situazioni vicine a certo Realismo Magico. O a certe sospensioni del tempo di memoria bergsoniana. E luci eterne, cugine della Metafisica. Erotismo trattenuto, immaginato mai vissuto. E sebbene questa sia forse la più casta delle mostre di Balthus, l’eroticità del suo sguardo pervade anche le nature morte.
Tutto bene fino al piano superiore. Persino l’idea di un ripensamento su Balthus, promosso a reazionario di genio può affiorare alla mente. Ma quando si arriva agli anni Cinquanta, a quel dopoguerra dove lui si è ritirato in Svizzera e dipinge casette, colline e fienili, i dubbi tornano tutti. Perché il mondo era cambiato.
Una guerra, un olocausto, una bomba atomica e la distruzione dell’Europa non può passare indenne sulla tela neanche fosse quella del più grande dei pittori. Così mentre Burri brucia i sacchi e Fontana taglia le tele, Balthus spennella verdi prati e fanciulle in fiore. Sarà stato anche un maestro, ma giustificarsi con lo spirito antimoderno ha un limite.
Jean Clair è scomparso, altrimenti l’avremmo rincorso per chiedergli. «Professore, ma questa indifferenza alla storia e al mondo come la spiega?». Cerchiamo spiegazione da soli sfogliando il catalogo denso ma leggero e agevole (ringraziamo Electa per aver avuto questa volta pietà della nostra schiena). Ci perdiamo tra le foto che ritraggono un giovane uomo elegante dal viso spigoloso, i tanti racconti che si alternano alle immagini, i saggi da leggere poi con calma e le riproduzioni di opere e cose che aiutano a capire. Bel catalogo.
Parte tre. Villa Medici. Dalle Scuderie alla casa del maestro. Quella in cui Balthus lavorò chiuso in un castello che rese a sua immagine e somiglianza, come direttore dell’Accademia di Francia per ben 16 anni (1961-1977) ridipingendone le pareti (vedi il Salon de la Musique) secondo un suo molto personale paradigma cromatico che dovrebbe riportarci a un abitare cinquecentesco.
Grazie alla mostra l’Accademia di Francia ci permette di arrampicarci fino alle stanze segrete e private dell’Appartamento del Cardinale e alla stupefacente Camera Turca progettata nel 1820 dall’architetto Horace Vernet e sfondo di alcune stupefacenti composizioni del Nostro.
Quelle appese nei saloni del piano terra e sulla scalea accanto ad altri quadri di fanciulle, e ancora disegni e acquerelli. Regna qui l’ossessione per le ragazzine, gli studi anatomici, il rinchiudersi in un mondo di luci o di soggetti fuori tempo, antimoderni per convinzione provocazione in un rifiuto radicale e militante del mondo contemporaneo.
Il mondo però è più forte di lui. Lo acceca, lo confonde, lo sconvolge al punto da perdere l’incisività del suo segno, il ferreo controllo del colore. Gli ultimi quadri dipinti a pochi mesi dalla morte, possono commuovere per quella resa incondizionata che in fondo dimostrano.
In un "Sans titre" del 2000 il colore sfugge alle regole e come una nebbia azzurra avvolge e inghiotte tutto lo spazio lasciando affiorare solo un volto perso nel nulla. Nei successivi poi, non c’è più neanche una legge cromatica. Uno sull’altro i colori si sporcano, colano incontrollati, i corpi sono sfatti, le linee perdute. Siamo nel 2000. Il Novecento è finito. Per noi e per lui.
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