DAGOREPORT: PD, PARTITO DISTOPICO – L’INTERVISTA DI FRANCESCHINI SU “REPUBBLICA” SI PUÒ…
Marco Mensurati per “la Repubblica”
C’è qualcosa di molto italiano in questa storia. Qualcosa che però non ha nulla a che vedere con il concetto di “eccellenza” spesso associato alla Ferrari.
Stiamo parlando della lenta agonia della Ferrari driver academy (Fda), la cantera del Cavallino. Nel 2009 la Scuderia annunciò di aver creato un programma per lo scouting e la formazione di giovani piloti. Un progetto molto ambizioso.
Scriveva il team principal di allora, Stefano Domenicali: «Vogliamo aiutare i ragazzini a crescere fino al punto di potere, un giorno, portare la bandiera della Ferrari in F1». Per fare questo, il programma si proponeva di «seguire tutta la formazione dei piloti, in modo che alla fine questi siano preparati ad affrontare ogni aspetto del motorsport ».
L’idea era quella di ospitare a Maranello un autentico campus in stile americano, nel quale i migliori talenti delle generazioni più giovani venissero seguiti da vicino. In tutto. Dalla preparazione scolastica alla tecnica di guida, dall’alimentazione all’allenamento, fino, ovviamente alle nozioni base di ingegneria e meccanica.
Tutto molto bello. Peccato che poi, all’atto pratico, sia finito in una specie di barzelletta. Perché, un po’ la crisi economica, un po’ la crisi sportiva con i relativi cambi al vertice (cambi che riguardavano persone che si trovavano da un momento all’altro ad avere a che fare con altre priorità) alla fine la montagna della Fda ha partorito un criceto.
Dopo sei anni di attività, nemmeno un pilota ha mai messo piede su una Ferrari. In due hanno guidato una F1: Sergio Perez della Force India, la Fda l’aveva però ritenuto inadeguato e lo aveva allontanato; e il povero Jules Bianchi. Lui, forse, una Ferrari l’avrebbe pure meritata ma non gli è mai stata data l’occasione, e purtroppo non è riuscito ad andare oltre a una Marussia. Per altro, a 25 anni.
A quell’età Sebastian Vettel aveva già vinto un paio di mondiali con la Red Bull, e si apprestava a vincere il terzo. Il campione tedesco era uscito dall’analogo programma della Red Bull. Una cantera che ha portato in F1, oltre a Vettel, anche Ricciardo, Kvyat, Sainz jr, Vergne, Buemi e Verstappen. Un confronto quello fra gli esiti dei due programmi - imbarazzante, sintesi perfetta della differenza di metodi, di attenzione e, soprattutto, di risorse che le due aziende dedicano al tema.
Red Bull ha investito un patrimonio, arrivando ad acquistare una squadra di F1 (Toro Rosso) con il solo scopo di lanciare i migliori giovani (anche troppo: Verstappen ha debuttato in F1 a 17 anni e 166 giorni) pescati a decine tra i migliori individuati, seguiti e scelti in tutto il mondo. La Ferrari dopo gli annunci, ha riciclato tre ingegneri, sia pure ottimi, e li ha incaricati di far crescere un pugno di ragazzini, alcuni buoni (come Bianchi), altri di talento (Fuoco e Marciello), altri solo raccomandati, e figli di miliardari.
Così nessuno si è stupito quando ha cominciato a circolare la voce che la Fda stava per essere chiusa. «Sciocchezze», ha detto l’attuale team principal Maurizio Arrivabene, «il programma continuerà». Secondo indiscrezioni, è previsto solo un cambio di rotta: invece di investire sui giovanissimi, la Ferrari cercherà ragazzi già formati e punterà su di loro. Chissà, magari così funziona. Certo costerà di più. Ma per i giovani, si sa, in Italia è dura.
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