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Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera”
Al Guggenheim della Fifth Avenue, il museo a spirale disegnato da Frank Lloyd Wright, le pareti curvilinee rappresentano una sfida in più per i tecnici che, piazzando sensori e telecamere, raccolgono dati sul comportamento dei visitatori per cercare di decifrarne gli interessi.
Al Moma, Sree Sreenivasan, che abbiamo conosciuto anni fa alla Columbia University come docente della scuola di giornalismo e pioniere dello studio del ruolo dei social media nell’informazione, ha invece vita più facile nella raccolta dei dati sui 6 milioni di visitatori che ogni anno si aggirano negli enormi spazi del Museo d’arte moderna di Manhattan, del quale è diventato il chief digital officer .
Nell’era digitale, si sa, siamo tutti «osservati speciali»: dalle telecamere di sicurezza dei palazzi e degli aeroporti, a quelle che riprendono i marciapiedi o sistemate dalla polizia negli incroci. C’è l’occhio che ti spia nei negozi, in banca, allo stadio, e quello che ti controlla in ascensore.
Ulay with Marina The Artist is Present MoMA
Ma siamo anche tutti delle miniere viventi di informazioni per «Big data» che vengono raccolte, con o senza la nostra collaborazione, seguendo le tracce che lasciamo su Internet o quelle fisiche monitorate con appositi sensori. Come quelli capaci di misurare la frequenza degli spostamenti da una scrivania in ufficio e che, magari, spengono la luce quando esci da una stanza.
Negli Stati Uniti l’uso più frequente delle tecnologie digitali lo fanno le grandi catene della distribuzione commerciale che, con telecamere e sensori davanti agli scaffali, cercano di capire cosa viene acquistato e perché. Si studia il volto degli acquirenti per carpirne lo stato d’animo: quel prodotto non è stato comprato perché costa troppo o perché piace poco?
google cultural institute viaggio nel moma di new york
Tecniche di questo tipo sono usate da tutti i grandi protagonisti del commercio di massa, da Macy’s a Wal-Mart. Ora anche i maggiori musei americani si sono messi sulla stessa strada: i curatori delle esposizioni cercano di capire cosa interessa di più al pubblico per modulare le loro mostre e, magari, modificare l’offerta di imitazioni vendute nei negozi del museo. Se le sculture di un artista attirano un’attenzione particolare, l’esposizione può essere trasferita in uno spazio più ampio e può essere accelerata la produzione di copie delle sue opere.
Il tutto, spesso, con la collaborazione dei visitatori ai quali molte istituzioni — dal Fine Arts di Boston al Nelson-Atkins di Kansas City — chiedono informazioni durante la visita usando i loro smartphone o iPad ricevuti in prestito. In cambio otterranno accessi gratuiti al parcheggio o ad altre manifestazioni culturali. Il più avanzato, secondo il Wall Street Journal , è il Dma di Dallas, col suo sistema di punti simili a quelli ottenuti coi programmi frequent flyer delle compagnie aeree.
I cultori della privacy storcono il naso: almeno davanti all’arte, i nostri comportamenti non dovrebbero essere spiati. Orientare le scelte culturali sui gusti della maggioranza è, poi, rischioso: si può finire per massificare tutto lasciando in ombra espressioni di valore e di nicchia.
Ma ormai quella dei musei è una macchina che muove interessi giganteschi: la Smithsonian, la grande fondazione dei musei di Washington, ha avviato un rifacimento di quelli che si affacciano sul Mall della capitale che durerà 10 anni e costerà più di 2 miliardi di dollari. Inevitabile ragionare anche in una logica commerciale.
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