DAGOREPORT – IN POLITICA IL VUOTO NON ESISTE E QUANDO SI APPALESA, ZAC!, VIENE SUBITO OCCUPATO. E…
Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia
Batosta. Di quelle che ti stendono anima e corpo, anche perché tutto, ma proprio tutto, ti lasciava fantasticare altro e il mondo giallorosso era l’immancabile mongolfiera predisposta alla festa e dunque all’immancabile tonfo. Le parole da condottiero senza macchia di Lucio Spalla alla vigilia potevano scatenare due effetti opposti, eccitare la marea guerriera o survoltare ragazzi non ancora pronti e svuotarli.
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Cinque minuti e hai la certezza che in scena va la seconda. Sottrai, anzi aggiungi, un inverosimile Nainggolan, per quanto totale e impeccabile in ogni cosa che fa, in ogni zona del campo e dell’anima, il resto della Roma si fa montare sopra da un Porto più vivo, più denso, più solidale. Mi piace la formazione della Roma, quel De Rossi arretrato tra i centrali e Paredes dentro, ma capisco subito il granchio.
Paredes è il primo a soffrire l’eccesso di responsabilità. Loro sono rapidi, troppo più rapidi della Roma troppo torpida. Lo 0 a 1 dopo otto minuti su calcio piazzato non sorprende e confessa in modo fin troppo plateale l’insostenibile pesantezza dell’essere romanisti stasera. La reazione c’è, Nainggo continua a spopolare, ma non basta. Anche perché tutto muore con quello Dzeko là davanti, implacabile nel dare di sé la versione del timido pachiderma, quando invece servirebbe là davanti una furia.
E proprio non si capisce perché a Trigoria si continui autolesionisticamente a puntare su questo inibitissimo e inibente giocatore, quando sul mercato, per dire, c’è un talentaccio come Zaza. Mah…
Ma la Roma ama lo psicodramma più di ogni altra cosa. Più di qualunque trofeo. Non gli basta un solo rosso, da norma fin troppo applicata. L’intervento scomposto di De Rossi sembra film già visto di un ragazzo troppo emotivo, troppo romanista.
Roma in dieci? Troppo poco. Troppo banale. Emerson Palmieri, altro survoltato, dentro scenari più grandi di lui, prova a spezzare una gamba a un portoghese. L’arbitro non sta lì a fare il compassionevole. Roma in nove. Può bastare per il drammone.
A giocare in nove, contro questo Porto integro e lucido, c’è solo da essere eroicamente sconfitti, tipo Leonida e Termopili. Così è. Si battono come leoni. La Roma fa il suo meglio quando è tutto perduto. Nemmeno magra consolazione. Scezny aggiunge la sua personale follia. Fine. Passano i migliori.
Peccato davvero mortale. Quarantamila in pieno agosto sembravano tanti in questi tempi di carestia e tifosi snaturati, che invece di annullarsi mistici nell’amata, hanno messo su una specie di sindacato dei diritti del tifoso, con tanto di bando ideologico. Ma questa era una sera speciale. Quarantamila possono sembrare ed essere ottantamila se, a gonfiarli, è l’estasi vendittiana all’inizio, ma Venditti sfuma dopo un minuto e tutto quello che doveva accadere non accade. I tifosi ci sono. La Roma no. E ora le conseguenze. Tutte da valutare, nelle casse della società, nella testa di Pallotta, in quella dei giocatori. Nella testa di Spalletti, soprattutto.
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