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Pasquale Chessa per “il Messaggero”
Cominciamo dalla fine, dal giudizio, dal voto: basso! Delude infatti la lettura ravvicinata del libro di Massimiliano Allegri, È molto semplice: quante frasi fatte («fare sport in prima linea»), corrivi neologismi (« monoidea allegriade »), scontate metafore guerresche («vivere al fronte»), luoghi comuni («la semplicità è la cosa più difficile»), parole abusate (« mister ragazzi negatività »).
I CODICI
Dalle prime frasi dell' introduzione, prometteva molto di più il richiamo di un «toscano orgoglioso» alla «nostra lingua ricchissima e musicale», al pari del «cazzeggio creativo», personale filosofia portatile che faceva ben sperare in un esito letterario del livornese Allegri in sintonia con lo spirito anarchico di Amici miei.
Niente di niente: come tutta la pallida aneddotica sciorinata lungo i 32 capitoli, non senza presunzione chiamati «regole», anche quando si propone di spiegare l' essenza antropologica del capolavoro di Mario Monicelli, il racconto di Allegri, invece che intelligenti risate riverbera noia piatta. Sia quindi che si parli di calcio vissuto, di Arrigo Sacchi o del modello Barcellona, oppure delle sue frequentazioni culturali, da Giorgio Gaber a Vasco Rossi, tutto è immerso nei colori della nebbia.
Nemmeno l' ultimo capitolo, dedicato a Ronaldo, riesce a introdurre nella sua prosa un guizzo di poesia. Materia che sgorga invece allo stato nascente dalla biografia di Manoel Francisco dos Santos conosciuto come Mané Garrincha, sommo artista del futebol arte, «l' angelo dalle gambe storte» del poeta della bossa nova, Vinícius de Moraes. «Calciatore dionisiaco» dice lo scrittore francese Olivier Guez nel libro che gli ha dedicato, Elogio della finta.
IL BRASILIANO
Il paragone con Allegri sarebbe squilibrato, va detto, ma è proprio seguendo gli indefiniti arabeschi disegnati dal campione brasiliano che si capisce quanto nel calcio non ci sia niente di semplice. Si tratti di un chapéu, scavalcamento aereo dell' avversario, o di una pedalada, «serie di doppi passi intorno e al di sopra della palla, ferma » la finta brasiliana porta le riflessioni sul gioco del pallone nei territori della filosofia e dell' antropologia culturale.
«Quest' arte di dissociare il corpo, i gesti e la guida della palla, in poche frazioni di secondo», secondo la descrizione che ne ha fatto un antropologo di Rio de Janeiro, Roberto De Matta, insigne allievo di Claude Lévi-Strauss, la finta ha a che fare con la cultura estetica di un intero popolo. Nel Brasile multirazziale dominato dai bianchi, i negri per giocare dovevano sbiancarsi con la cipria.
Nasce da lì la filosofia esistenziale della finta: per evitare di essere massacrati sul campo con la complicità degli arbitri, ai negri non rimaneva che sgusciare leggeri ondeggiando felici con destrezza verso la porta avversaria. La finta insomma, sublime sineddoche del calcio, sublima il peccato originale della schiavitù su cui si è costruita l' identità storica dell' intera nazione fino al 1888 e la riscatta dalle colpe della storia.
GARRINCHA
È grazie alla finta, biografia antropologica di una nazione, che vincendo la prima delle sue cinque coppe, che il Brasile si impone all' attenzione del mondo.
Garrincha muore in coma etilico all' alba del 20 gennaio 1983, aveva 49 anni, 13 figli, tante mogli, dopo aver dissipato affetti e denari. E una vita! Sapeva solo usare i piedi, Garrincha. Come si legge in un aforisma di Friedrich Nietzsche, ben citato da Guez in epigrafe, «forse, anche la leggerezza dei piedi fa parte del concetto di Dio»
GARRINCHA E PELEguezGARRINCHA bruno manfellotto pasquale chessaLA TOMBA DI GARRINCHA
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