luciano spalletti

CALCIO DOTTO - "7 ANNI FA SPALLETTI ERA UN BUON ALLENATORE MA PERMALOSO COME UNA SCIMMIA. OGGI È AL CONFINE TRA IL SANTONE E LO STREGONE, FINO A CONCEDERSI LO SCANDALO ESTREMO, ALLONTANARE DA TRIGORIA IL PADRONE DI TRIGORIA. IN UNA CITTÀ PIÙ TOTTISTA CHE ROMANISTA..."

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Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia

 

L’ultima volta che andò via da Roma, sette anni fa, era ancora un diminutivo. Luciano Spalletti. Un buon allenatore, un pessimo carattere. Impantanato nelle omiciattole beghe dell’io sono. Intelligente, ma permaloso come una scimmia. L’ultima volta lo vidi all’Olimpico, ma non era Francesco Totti, era Bruce Springsteen. E lui, in tribuna, padre orgoglioso di figli che hanno gusti buoni.

 

Lasciava Roma e la Roma ciabattando furioso e teatrale il suo anatema contro il “tacco e punta” dei suoi appestati di leziosità, stile Nikita Kruscev, le mani invece della scarpa, il tavolo di Trigoria invece che quello dell’Onu. Se ne andava e c’era già la Russia nel suo destino.

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Sette anni dopo è tornato e non è più un diminutivo. Cosa diavolo sia diventato è ancora tutto da scoprire. Da osservatori, un interessantissimo work in progress. Chiamarlo Spalletti oggi è inadeguato al limite dell’offensivo. Io lo chiamo Big Spalla, ma potete chiamarlo come volete, Spallata, Spallone. Chi non lo ama lo chiamerà Spallone Gonfiato. Io, che sto imparando ad amarlo, dico che ci sono muscoli e genio in quel suo sanguigno teatraccio al confine tra il santone e lo stregone.

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Cinque anni a San Pietroburgo sono altro che Russia. Nessuno mi toglie dalla testa che Big Spalla sia stato posseduto dallo spirito di Rasputin, il monaco, il santo folle che incantava le masse, gli zar e soprattutto le donne dello zar. Confrontateli.

 

Sottraete l’eccesso di pelo dall’originale, barba e capelli, aggiungete un po’ di spalle e di torace e troverete in mezzo al teschio lo stesso occhio di brace, che ti punta dritto nelle carni come una torcia. Poche storie.

 

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Qualcosa di enorme è accaduto nella testa e nella psiche dell’uomo nato a Certaldo ma rinato a San Pietroburgo. Qualcosa che l’ha trasformato da un diminutivo a un accrescitivo, anzi a un’iperbole. Da un qualunque bravo allenatore in uno magnetico stregone. Il sospetto è che, come accade, uscendo rasputianamente fuori di sé, fuori di testa, Big Spalla abbia trovato la sua grandezza.

 

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Arriva a Roma e trova una banda ammosciata e spenta. Bravi ragazzi, anche dotati, terrorizzati da una piazza che sarà meglio chiamare belva, e sospettosi della propria pochezza. Rudi Garcia è un bravo allenatore e un eccellente persona. Posso dirlo, da persona a persona. Un uomo leale. Intelligente e rispettoso. Ma gli mancava quel pizzicotto d’insania per rovesciare di fino e di barbaro il tavolo dove galleggiavano avanzi di quello che era stato e non immaginava più di essere.

 

La Roma, quella Roma, era una fanciulla senza una scarpa, ripudiata da tutto e da tutti. Che aspettava alla finestra con la sua treccia consunta il salvatore.

 

Il definitivamente ex Spalletti è arrivato e ha preso in adozione questa fanciulla. Da Big Spalla se l’è caricata tra le braccia con tutta la sua malattia da tisi incombente e l’ha fatta rifiorire. Amandola, violentandola, guardandola implacabilmente negli occhi, che più si abbassavano e più li costringeva a stare alti, a non fare inchini ma piuttosto sgambetti, penetrandola con gli atti e le parole, più liriche e feroci degli atti.

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In poco più di due mesi Big Spalla è entrato nelle teste dei suoi, dove per “suoi” s’intende l’intero, sgangherato, litigioso mondo romanista, giocatori, dirigenti, opinionisti (a Roma sono tutti opinionisti, a cominciare dai tifosi). Ha miracolato la sua proverbiale prolissità con sintesi folgoranti e colpi di frusta truccati da dialettismi rusticani.

 

Ha sorprendentemente azzeccato ogni concetto come il più fine degli intellettuali e il più appassionato dei parroci di campagna. Ha preso per il bavero e ha carezzato. Si è sentito forte e padrone, fino a concedersi lo scandalo estremo, allontanare da Trigoria il padrone di Trigoria. In una città più tottista che romanista, la scorciatoia per essere impalato a Porta Metronia.

 

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Ma Big Spalla e il suo occhio di brace, la sua parola ispirata, sono tre passi  davanti a tutto e a tutti, vittoria dopo vittoria, l’exploit orale e paradossale del dopo Madrid quando tutti erano lì a fregarsi le mani, fino all’ultimo caso, la difesa a oltranza del Grande Depresso. Il cammellone bosniaco precipitato nel non saper più che fare dei propri piedi.

 

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Il rischio in uomini così (nel mondo calcio, forse nemmeno Mourinho e Van Gaal, forse più astuti di lui, arrivano a questa intensità somigliante a uno stato di grazia) è lo sconfinamento nel titanismo, la porta dell’onnipotenza. Sembrava questo, quando alla vigilia di Udinese-Roma, ha raccontato in punta di paradosso il suo sì a Dzeko. La fortuna aiuta gli audaci e i folli. Big Spalla mostra di saperlo. E sembra sapere anche che sarebbe peccato abusarne.

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