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juventus scudetto buffon con il figlio
Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia
E’ stato il campionato della Solita Nota. Quest’anno in versione sado. Ciao ciao bambina. T’illudo per divorarti meglio. Il ghigno satanik di nonno Buffon in D’Amico e quello nazibuio di Bonucci sento odore di Cristianucci sono la copertina. Nello sfondo, leggiadre ma non marginali, le movenze assassine delle pin up, Pogba e Dybala. Tutti gli altri, tutti noi, cappuccetti rossi, gialli e celesti, merende apparecchiate per l’abituale picnic sul prato. Ossi da spolpare e sputare in fretta. A stuzzicare il dente della cannibala, ci trovi rimasugli masticati di Napoli, Roma e persino Inter e Fiorentina.
LA DISGRAZIA DI NASCERE JUVENTINI.
Non hai ancora finito di simulare un cencio di allegria per il quinto scudetto consecutivo che già ti mettono sotto torchio con la scusa della leggenda. “Dobbiamo vincere il sesto per entrare nella leggenda”. Non c’è pace per il tifoso della Gobba. A portare voce con i suoi innumerevoli denti parati a festa il Max Allegri nella sua recente versione di generale Patton cui hanno dimenticato di modificare le corde vocali, sicché tutto giusto, l’occhio imperioso, il pugno che batte sul tavolo e il furore che straccia le vesti, ma gli resta quella voce dell’originale un po’ fessa (vuota a non rendere) da paperino stridulo e un po’ falsetto.
La Juventus non è un club, è una setta. Ti plagia. Ti entra dentro, come i baccelloni ultracorpi del film di Don Siegel. Ti metti addosso il bianconero e non sei più lo stesso. Non ti riconosce più nemmeno la mamma. Vedi Marotta. Ma anche Zaza e Sturaro. Disgraziati. Condannati come Don Giovanni ad aggiornare all’infinito il catalogo delle loro conquiste, perché convinti che il vuoto si riempie con il pieno.
LA FORTUNA DI NASCERE ROMANISTI (MA ANCHE NAPOLETANI).
Non vincono mai o quasi. Una volta ogni venti o trent’anni, circa. Giusto se passano di là, per caso, Falcao, Maradona o Batistuta. Nell’infelicità sono felici. Hanno capito che le preghiere non accettano di essere esaudite, che il desiderio è il luogo oscuro e inaccessibile del nostro scacco. Non ammette d’essere realizzato, vive, al contrario, solo nel fallimento eroico e puntuale della sua impresa. Quest’anno Napoli e Roma ci avevano creduto. Ingenue come due bimbe cui avevano raccontano che l’Orco non era in casa. Che la belva era malata grave. Crudele illusione. Ci sono cascati anche i biscazzieri. Alla fine, eccole lì, le due, come sempre, struggenti a festeggiare il loro secondo e terzo posto (quest’anno a parti alternate) e convinte che la prossima sarà una storia migliore.
L’INCERTA SORTE DI NASCERE INTERISTI O MILANISTI.
Se sei l’uno o l’altro e guardi la storia anche recente non puoi che guardare schifato il presente. Sospesi tra vecchi mecenati più o meno in tutti i sensi andati e il lezzo d’oriente, le indecifrabili frontiere del business asiatico, i due club galleggiano a stento. Ancora fuori dalla Champions, il Milan fuori da tutto, a meno che non riesca sabato nel miracolo inimmaginabile se non immersi in una vasca di Amaro Averna di battere nella finale di Coppa una squadra che è almeno due spanne e dodici zanne sopra.
I nuovi padroni dell’Inter si sono affidati al Putto Mancini, credendosi in una botte di ferro, e ritrovandosi invece in una confezione di plastica, alla mercé del suo capriccioso gioco del fare e disfare, salvo poi degenerare a fine romanzo nel più classico dei manciniani “io contro tutti”. Dove io sta per Dio. Più terribile e dispotica, perché senile, la capricciosità di Berlusconi, dilaniato nella carne sempre più molle, sotto la maschera sempre più allarmante, nella margheritona gigante del mollo o non mollo. Nel frattempo, una pena. Si libera di Mihajlovic, un bucaniere che sa almeno come si sbatte al muro un giocatore reticente, e si affida al tremulo Brocchi, noncurante di quanto un cognome così diventerà alla prima occasione tentazione di titolisti facili e villani. Se questo è il Milan, non basterà nemmeno Ibra, la Leggenda autoproclamata.
BERLUSCONI MIHAJLOVIC GALLIANI
MISTERIOSI MISTER. GLI OSCAR DELLA PANCHINA.
Nessun dubbio. Maurizio Sarri e Lucio Spalletti, detto anche Big Spalla, perché non merita il diminutivo. Aggiungi Max Allegri e ne risulta che è l’anno dei toscani. Napoletano per sbaglio, Sarri, ma allevato e depravato a Figline Valdarno, dunque scurrile il giusto. Un anarcoide in tuta da lavoro, fomentato da letture sovversive, Bukowski su tutte.
La sua vera impresa: resistere alla tentazione di dare del finocchio al suo padrone, Pomata De Laurentiis, il vero bersaglio (Mancini era solo un oggetto sostitutivo che passava lì per caso), uno che si guarda intorno e vede solo dipendenti e panettoni. Prima o poi, non sappiamo quando, Sarri esploderà. A lui non piacciono quelli che non hanno un capello fuori posto. Problema che non tocca Big Spalla. Cranio lucido e ribollente. Quattordici vittorie nelle ultime diciassette partite. Migliore attacco del campionato. Ha trasformato una squadra che si ammosciava solo a guardarsi allo specchio in una banda di leggiadri e feroci cesellatori.
spalletti sarri foto mezzelani gmt090 1
La sua Roma gioca oggi il miglior calcio d’Europa, un gradino sotto e non sempre il Barca e il Bayern. L’ultima volta che se n’era andato da Roma era ancora un diminutivo. Sette anni dopo è tornato e non è più lo stesso. Cosa diavolo sia diventato è tutto da scoprire. Ii dico che ci sono muscoli e genio in quel suo sanguigno teatraccio al confine tra il santone e lo stregone. Cinque anni a San Pietroburgo. Per come la vedo io Big Spalla è stato posseduto dallo spirito di Rasputin, il monaco folle che incantava le masse, gli zar e soprattutto le donne dello zar.
Sottraete l’eccesso di pelo dall’originale, barba e capelli, aggiungete un po’ di spalle e di torace e troverete in mezzo al teschio lo stesso occhio di brace, che ti punta dritto le carni come una torcia. Big Spalla s’è caricato in braccio la sua tisica creatura, ripudiata dai suoi stessi tifosi, e l’ha fatta rifiorire. Amandola, violentandola, guardandola implacabilmente negli occhi, costringendola a non fare inchini ma piuttosto sgambetti, penetrandola con gli atti e le parole. L’ha fatta tornare bella ma non più fragile. Ha sbagliato solo con il Capitano c’è solo un Capitano. Sottovalutando l’idolatria di una città intera. Là, non arriva nemmeno Rasputin.
LA CERIMONIA DEGLI ADDII.
Non li vedremo più agitarsi dentro una mutanda e sarà triste. Non vedremo più Miro Klose, almeno sui nostri campi, magnifico uomo e calciatore, comunque lo si consideri. E nemmeno il grande Toni. Il suo, un addio definitivo. Magnifica storia tutta golorada anche la sua, a dispetto delle movenze da Frankenstein e una tecnica non di primissimo ordine. Non rivedremo Totò Di Natale, o forse in qualche spezzone americano o canadese, l’uomo che ha scelto di regalare tutto il suo genio calcistico a una provincia del calcio come Udine. Lui, come Gigi Riva a Cagliari.
Lascia anche e per sempre Christian Abbiati, la sfinge marmorea di Abbiategrasso. Ha lasciato porta e guanti a un pivello che ha più statura e più talento di lui, Gigio Donnarumma. Sedici inverosimili anni. La vera, grande notizia di questo campiomorto. Lasciano anche, ma forse non per sempre, Carpi, Frosinone e Verona. Decenti fino in fondo. A sproposito di decenza. Lascia Antonio Conte. Non lasciano, invece, Lotito e Zamparini.
christian abbiati
ZAMPARINI
LOTITO
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