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Giulia Zonca per la Stampa
Lo scudetto di Allegri porta la cresta, quel che rimane di un agguato con schiuma di Cuadrado e quel che basta per sconvolgere un po' una festa tanto rigorosa da finire con un inchino. È cosi che il tecnico riceve l' ovazione dei tifosi: «Un gesto che non avevo certo preparato ma mi è parso l' unico possibile. Di solito me ne vado proprio».
Stavolta lo hanno chiamato, quasi interrogato per capire se il tecnico che ha portato gli ultimi tre scudetti e due finali di Champions ha deciso che fare del futuro. L' inchino per ora è la sola risposta.
L' evoluzione in 4 scudetti Allegri vuole «godersi quel che abbiamo fatto», ma non troppo: «I party li abbiamo cancellati dopo Roma perché prima si ottiene e poi si programma». Pare di capire che in programma ci sia altro e come dice il tecnico «non è la finale della coppa dei bar, è la Champions e ci si va con un altro atteggiamento rispetto al 2015».
Lui sa come si cambia, è la sua specialità, oggi è molto diverso dall' uomo che ha vinto il primo scudetto con il Milan. Aveva tanti meriti anche allora, ma non ha lasciato impronte, non è rimasta eredità e anzi gli strascichi di quel titolo gli hanno appiccicato addosso una stramba definizione: «aziendalista» Un' etichetta nata apposta per ridurre gli orizzonti, per limitare il talento mentre ora si parla di una dote certa, di una Juve che ha plasmato, indirizzato, contaminato. Al diavolo, appunto, i vecchi soprannomi.
Nella vittoria del 2017 c' è il suo Dna, una firma indelebile. Non è solo per la mossa tattica che ha dato la svolta alla stagione, figuriamoci se uno che ha smontato un matrimonio praticamente sull' altare ha paura di rivoltare uno schema: «Eravamo diventati troppo conservatori, la squadra non cresceva più e vederlo mi infastidiva, era un problema mio».
Prima di azzardare un modulo alternativo è cambiato lui. Non una rivoluzione, piuttosto un' evoluzione: «Non sono lo stesso che è arrivato a Torino, si cresce, si deve migliorare e ogni tanto cambiare idea. E poi ho perso i capelli».
In attacco in campo e fuori Alla prima stagione sulla panchina della Juve ha superato lo scetticismo, alla seconda è diventato quasi manager, adesso gestisce il gruppo, convince il tifo, partecipa alla vita della società e strappa l' ammirazione altrui. Gli applausi neutri. Per migliorare è andato all' attacco in campo, con una formazione spregiudicata e calibrata insieme, e fuori quando ha alzato la voce dopo lo scambio di insulti con Bonucci. Poteva scivolare sulla disciplina: lasciar correre e perdere le redini, fissarsi e perdere il controllo invece ha gestito. Ha stabilito il prezzo per la mancanza di rispetto e una volta incassato il tributo al comando ha archiviato l' incidente. E soffocato ogni possibile sbandamento.
La calma è parte del suo carattere, però una volta il distacco che lo caratterizza era venato di quell' ironia livornese che spesso lo ha portato a licenziare battute mai veramente capite.
Ora evita. Semplice, lineare fino alla noia, ma attento a non diventare falso a non passare per menefreghista.
Ha mantenuto solo il sorriso beffardo che gli esce spontaneo prima di certe risposte caute.
Ha vissuto delle giornate nervose e le ha smaltite. Oggi sa che conta quello che resta: «Tra molti anni si guarderà a queste stagioni e si parlerà di storia del calcio. Possiamo farne altra».
Non vuole più graffiare, deve costruire e lo fa di continuo, concentrato su un progetto più grande che nasconde anche le sue prossime scelte:
«A me stare qui piace, incontrerò la società e discuteremo. La Juve è arrivata molto in alto e bisogna capire come crescere ancora». Resta un inchino che può essere un grazie, un saluto, un omaggio o un modo di gestire il tributo. «io di solito me ne vado». E la medaglia scudetto al collo gliela la deve mettere il figlio. Nella celebrazione più pacata c' è la soddisfazione più completa.
ALLEGRI
VALENTINA ALLEGRI
VALENTINA ALLEGRI
VALENTINA ALLEGRI
ALLEGRI
STRISCIONE ALLEGRI
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