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“PER ANNI HO SOFFERTO PER L’ALTEZZA” - FERDINANDO DE GIORGI, COACH DELL’ITALVOLLEY MASCHILE CAMPIONE DEL MONDO – "ERO UN PALLEGGIATORE. ESSENDO BASSO PENSAVO SEMPRE: 'QUANTI PUNTI, A CAUSA DELLA MIA ALTEZZA, FACCIO PERDERE ALLA MIA SQUADRA? OTTO? ALLORA, NE DEVO FAR GUADAGNARE ALMENO NOVE'. DA ALLENATORE ORA SO CHE SERVONO I DIFETTI PER ALLENARSI AL SUCCESSO" - "LA GENERAZIONE DEI FENOMENI DEL '90? NOI CI DEFINIVAMO LA NAZIONALE DEI MINATORI PERCHÉ VELASCO CI MASSACRAVA DI LAVORO" - LA MAGLIA AZZURRA "CHE RISOLVE TUTTI I CASINI POSSIBILI" E LE DIFFERENZE CON LA NAZIONALE DI CALCIO: “PER LA QUALITÀ DELLA NOSTRA SQUADRA CONTA IL FATTO CHE NELLA PALLAVOLO CI SIA L’OBBLIGO DI SCHIERARE TRE ITALIANI SU SETTE”
Walter Veltroni per corriere.it - Estratti
Ferdinando de Giorgi, detto Fefè, è l’allenatore che ha portato la nazionale di pallavolo maschile sul tetto del mondo. Insegna la pallavolo meditando sui significati del suo lavoro. Julio Velasco e lui iniettano un senso di profondità e serenità nel difficile mestiere di chi deve decidere e prendersi le responsabilità. De Giorgi è stato il palleggiatore della nazionale dei fenomeni che vinse, Velasco allenatore, i mondiali nel 1990. Non è alto quanto forse ci si aspetta debba essere un giocatore di pallavolo, ma è intelligente e curioso e tanto gli è sempre bastato per vincere.
Come è iniziato il tuo amore per la pallavolo?
«Era il tempo dei Giochi della gioventù e io all’inizio volevo giocare a calcio, come tutti i ragazzi della mia terra, quando per farlo bastavano due maglioni e un pallone. Ma non andavo bene a scuola e allora mio padre mi disse che forse era meglio che guardassi altrove. Ho iniziato così a frequentare la pallavolo nella Vis Squinzano, una squadra della mia regione, la Puglia. Facevano tre allenamenti a settimana, il che mi consentiva di studiare.
Avevo quattordici anni e rimasi subito folgorato. Scoprii che era uno sport bellissimo e che mi riusciva facile. Sono stato immediatamente preso dal meccanismo del gioco che poi nel tempo ho decodificato meglio. Mi affascinava moltissimo l’idea che ci si dovesse passare la palla, che si dovessero fare tre tocchi in un’azione, ma tutti da parte di giocatori diversi. Mi sembrava un gioco fondato sul principio di relazione, non uno sport egoistico o autoreferenziale. Ciascuno dipende dall’altro. E questo per regolamento».
Qual è la dote fondamentale di un buon palleggiatore? L’altezza è decisiva?
«Il fondamentale più difficile è il palleggio, perché la natura umana tende a trattenere la palla, non a respingerla. A quattordici anni ero più o meno alto come ora e tutti si erano illusi che crescessi e diventassi alto quanto loro volevano. Mi sono fermato, invece. E per tutta la carriera mi sono sentito dire: “Bravo, se però avessi qualche centimetro in più…”. Io da ragazzo sognavo di andare in nazionale e questa storia dei centimetri in più è finita proprio quando ho indossato la maglia azzurra, a venticinque anni».
Hai sofferto? Eri alto per la tua età ma basso per il tuo sport preferito.
«A quattordici o quindici il sentirsi diverso o inadeguato per qualcosa che non dipende da te può lasciare ferite molto profonde. Quando formo gli allenatori dico sempre: non date giudizi, guardate le potenzialità, non i difetti. Se tu guardi i miei limiti sembra che il resto non esista.
Per me la spinta fondamentale è stata la determinazione. Nella vita bisogna guardare quello che hai, non quello che manca. Essendo basso pensavo sempre: “Quanti punti, a causa della mia altezza, faccio perdere alla mia squadra? Otto? Con tutte le altre cose che sono capace di fare, ne devo far guadagnare almeno nove”. Da allenatore ora so che servono i difetti per allenarsi al successo».
Dove hai imparato il gioco di squadra?
«Nella mia famiglia. Mio padre ora ha cento anni, mia madre novantacinque. Ho due sorelle e sette fratelli. Mio padre contadino, poi cantoniere, mia madre ovviamente casalinga. Non so davvero come abbiano fatto, ma ci hanno tirato su con grande dignità, senza mai far mancare niente a nessuno. Nove figli sono tanti. Lì ho imparato il gioco di squadra. La mattina quando andavamo a scuola era una guerra. Nella mia famiglia c’era una grande condivisione, ci si aiutava e tutti siamo riusciti a studiare.
Papà parlava poco, era corretto, onesto, gran lavoratore, molto cattolico. Per me più che le sue parole contava il suo esempio. Mio padre da contadino non capiva questa mia passione per lo sport e pensava che fosse, così, solo un divertimento. Una volta però mi ha incontrato mentre andavo a piedi sotto la pioggia all’allenamento. C’era un temporale terribile e mi ha chiesto: “Ma dove vai sotto questo diluvio?” Gli ho risposto: “Papà, io devo andare”. E lui ha compreso che era la passione della mia vita».
Il palleggiatore è come il regista nel calcio?
«Forse è di più. Nel calcio, nel basket, i playmakers stanno progressivamente sparendo. Nel calcio l’azione si può sviluppare in mille modi, da mille parti. Da noi invece il secondo tocco dell’azione spetta sempre al regista. È il fulcro. Dopo la ricezione è lui a decidere lo sviluppo del gioco. Ha quattro attaccanti da servire, chiama gli schemi… È un lavoro molto complesso».
Come si insegna?
«Il primo passo del percorso di un palleggiatore è acquisire la tecnica. La precisione è fondamentale: quanto e come sai spingere la palla, gli angoli di uscita di un passaggio che cambiano in base alle preferenze dei tuoi compagni. Nella fase iniziale della formazione di un palleggiatore devi creare le abilità, ma insieme bisogna che si formi la visione “intellettuale” del proprio compito. La mia definizione del mestiere di palleggiatore è: “Dubbio costante e decisione rapida”. Ti devi porre tante domande e poi hai una frazione di tempo per decidere. Meno tempo hai, più devi essere preparato. Non sempre va fatta la cosa istintiva».
Tutto questo non si insegna in palestra…
«La tecnica la impari in palestra, ma la conoscenza di come gestire i tempi di decisione si fa con una preparazione mentale. Un esempio: ciascuno dei tuoi compagni di squadra ha la sua preferenza su come ricevere la palla, a quale altezza, con quale intensità. Io avevo un quadernetto in cui mi segnavo tutto. Lo memorizzavo e mi ripetevo tutto come una poesia, prima dell’allenamento.
Inoltre devi tener conto degli schemi di gioco, ci sono sei rotazioni e per ciascuno c’è una diversa possibilità. Il palleggiatore deve anche conoscere le caratteristiche dei tre giocatori che ha di fronte dall’altra parte della rete. Devi sapere i loro difetti e le loro virtù. Tutto questo confluisce nell’istante preciso in cui, ricevuta la palla, decidi come smistarla. Insomma, devi allenarti a pensare. E a decidere, in una frazione di secondo. La complessità che diventa scelta».
Quanto conta l’alchimia della squadra?
«È uno dei fattori decisivi. Le nazionali non per forza convocano i quattordici più bravi. Talvolta si fanno delle scelte per creare equilibri che non sono solo tecnici, ma anche di relazione. Una squadra deve essere una comunità in cui ciascuno è sé stesso, meriti e difetti, ma ci si sente legati da una comunità di destino. Velasco sostiene a ragione che in una squadra non bisogna per forza essere amici e lo dice per togliere alibi. Non è che se non sei amico non puoi giocare bene. Naturalmente, se si vince, l’affettività poi aumenta rapidamente».
Quali sono gli ingredienti di questa alchimia?
«La nostra nazionale, quella che ha vinto i Mondiali nel ‘90, era definita la nazionale dei fenomeni. Noi invece ci definivamo la nazionale dei minatori perché Velasco ci massacrava di lavoro. Eravamo una squadra con tante personalità: Zorzi, Bernardi, Gardini, Lucchetta.
Quello che ci vuole, in una squadra, è il rispetto reciproco. E poi c’è la maglia azzurra che risolve tutti i casini possibili. Ma l’atteggiamento fondamentale è la disponibilità. Il fatto che tu non ti tiri indietro, che superi le difficoltà con gli altri e con la fatica. La disponibilità si conquista nel tempo, perché si nasce egoisti. Ci si educa alla responsabilità. In una squadra puoi giocare bene anche se non sei amico, ma non puoi giocare bene senza disponibilità e rispetto reciproco».
Quando avete vinto voi, i ragazzi si sono messi a piangere. Quando hanno vinto le ragazze hanno festeggiato e ballato con spensieratezza.
«Non solo, si andavano incontro battendo il petto, un tipico atteggiamento maschile. È l’evoluzione. Queste due nazionali piacciono perché sono sincere, autentiche. Io penso che il pianto dei miei ragazzi, il loro lasciarsi andare, sia stata una cosa bellissima. Sembrava fragilità, ma era verità.
La reazione capovolta delle donne anch’essa è stata bellissima, ha creato la coscienza, la consapevolezza della normalità, dell’inesistenza degli stereotipi. Ciascuno, in relazione al proprio carattere e al proprio stato d’animo, da persona, vive una gioia sportiva».
La pallavolo era uno sport laterale e ora è diventato uno dei più importanti e seguiti.
«Dietro c’è un grande lavoro. Il nostro sport si è aggiornato senza snaturarsi. L’abolizione del cambio palla è stata una rivoluzione, perché in Tv non si poteva programmare, non si sapeva quanto durava una partita e quindi ci mandavano in differita. Ora facciamo ascolti importanti.
L’introduzione della figura del libero evita che la palla cada subito sulla battuta avversaria e, al tempo stesso, consente a un ragazzo alto un metro e sessanta di giocare in nazionale. Ancora: l’innovazione di prendere la palla con i piedi. Il rugby ha fatto così, cambiando le regole della mischia. Come il tennis con l’introduzione del tie-break. Tutto questo ha consentito a questi sport di aggiornarsi, di essere moderni».
Il calcio è concentrato sui club e ben poco sulla nazionale. Nella pallavolo è il contrario.
«A livello di pubblico televisivo è così, ma il nostro movimento di base è forte, le società sono strutturate e fanno i loro numeri. Ma penso che per la qualità delle nostre nazionali conti in primo luogo il fatto che nella pallavolo ci sia l’obbligo di schierare tre italiani su sette. In campo, non in panchina. Si impara giocando, non guardando gli altri dalla panchina o dalla tribuna.
Questo vincolo fa mantenere l’attenzione sui giovani italiani che vengono seguiti con grande cura sia dalla società che dalla federazione. Come tesserati siamo il secondo sport di squadra dopo il calcio, ma il 70% sono donne. Comunque a me, da allenatore della nazionale maggiore, ogni anno arrivano un paio di giocatori di qualità. C’è una forte continuità, perché c’è un grande movimento che parte dal basso».
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