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Rocco Moliterni per “la Stampa”
patrizia-sandretto francesco bonami e opera di cattelan
Come dice lui stesso dell’artista svizzero Thomas Hirschhorn, se Francesco Bonami non esistesse bisognerebbe inventarlo. Per fortuna il sessantenne critico e curatore toscano si è inventato da solo e scrive libri come Il Bonami dell’arte (Electa, 125 pg., 12,90 euro) che sono una boccata d’aria fresca in un mondo dell’arte sussiegoso e pieno di sé, oltre che di guru che guardano tutti dall’alto in basso e si prendono fin troppo sul serio (forse solo gli chef e i critici gastronomici in questo momento tengono testa, come assenza di ironia e autoironia, al mondo dell’arte).
Bonami è invece una sorta di Giamburrasca che ha avuto la fortuna di vivere prima da giovane critico (scriveva su Flash Art) nell’America degli anni d’oro, e poi da affermato curatore nell’Europa delle Biennali post-Szeemann e delle grandi Fondazioni d’arte private. Ha avuto così modo di conoscere personalmente artisti, critici, curatori, collezionisti appartenenti al Gotha dell’arte internazionale, in molti casi quando sia lui sia loro avevano i calzoni corti (vedi Cattelan o Gioni). E in questo libro ne traccia una serie di ritratti (65 per la precisione, da Adel Abssamed a Huang Yong Ping) fuori degli schemi, ricchi di ironia e dove talora non manca un pizzico di ferocia.
Okwui Enzewor Soup No Soup mars
Bonami, Tadao Ando e Alison Gingeras
Successo, visibilità, soldi
«Il mondo dell’arte - scrive - è un mondo a parte, è una piccola famiglia incestuosa, dove quasi tutti vogliono poche cose, sempre le stesse: successo, visibilità, soldi. In cambio sono disposti a vivere nella noia eterna». Il libro ha per sottotitolo Incontri ravvicinati nella giungla contemporanea.
Per Bonami «la giungla dell’arte più che pericolosa è fastidiosa, molti dei suoi abitanti non mordono, ma pungono come insetti. Eppure, come una giungla, è anche misteriosa, affascinante, lussureggiante e lussuriosa. Nella mia vita l’ho attraversata come un esploratore, finché mi ci sono perso dentro diventandone parte. Dove si arriva, non lo so. Come uscirne nemmeno».
Ma si offre come guida, «una sorta di Piero Angela» alla scoperta di questa giungla: «Tra voci e suoni, urla, bisbigli e sbadigli, spero abbiate voglia di seguirmi osservando gli strani animali dell’arte che insieme incontreremo. Immaginate quei programmi pomeridiani della televisione dove si sente la voce fuori campo dello zoologo che descrive un animale, le sue abitudini, i suoi possibili pensieri. Ecco, io sarò come quello zoologo».
Alla vigilia della 56a Biennale (si apre al pubblico il 9 maggio) Il Bonami dell’arte si rivela anche un utile baedeker sui protagonisti della manifestazione veneziana e di ciò che le ruota intorno. C’è ad esempio Okwui Enwezor, curatore di questa edizione per la quale ha scelto come tema «All the world’s futures». «Lo invidiavo - scrive Bonami - come s’invidiano tutti i colleghi che si intuisce ti porteranno via opportunità e sogni. Il primo sogno che Okwui mi portò via fu Documenta. A una certa età, prima che arrivino i cinquanta, si spera sempre di essere invitati al girone finale per la nomina di curatore di Documenta a Kassel. Ma con Okwui in pista si capiva subito che non c’erano più chance. Eloquente, capace di una retorica travolgente, con idee non scontate, Okwui era l’uomo giusto al momento giusto. Senza togliere nulla ai suoi meriti, solo degli imbecilli potevano farsi sfuggire l’opportunità di farsi belli nominando il primo curatore non europeo, africano, nero, di quell’Olimpo eurocentrico e bianco che era stata Documenta nella sua intera storia. Stessa cosa vale per la Biennale di Venezia».
SALMA HAYEK E IL MARITO PINAULT
vezzoli bonami
Ma pure Enwezor per Bonami non è indenne da difetti: riesce «a farci capire che l’arte contemporanea e moderna non è solo un quadro di Cézanne o un cane palloncino di Jeff Koons, ma anche la capacità di gonfiare i testicoli in nome del mai abbastanza sbandierato scioglilingua della multiculturalità».
Bonami con Marina Abramovic alla Fondazione-Prada
Il fiuto di Pinault
Tra i «dogi» di Venezia c’è senza dubbio François Pinault, magnate del lusso e collezionista, gran patron di Palazzo Grassi e Punta della Dogana (non si conta nel mondo dell’arte se non si viene invitati alla mitica cena che organizza durante la Biennale all’Isola di San Giorgio). «Oltre ad avere un occhio eccezionale per l’arte, Pinault possiede anche un grande fiuto per gli affari. Sa tuttavia tenere separati passione e calcolo. Strapaga per i suoi desideri artistici, ma è parsimonioso con i bisogni del suo ego. Quando il Comune di Parigi gli ha messo i bastoni tra le ruote per la costruzione del suo museo su un’isola della Senna, lui, anziché impuntarsi per dimostrare il suo potere, ha levato le tende e si è trasferito a Venezia».
Anche Pinault non è perfetto: «Si fida poco. Per questo prima di decidere qualcosa fa un sondaggio. Utilizza spesso la tecnica del divide et impera con domande a trabocchetto del tipo: “Cosa ne pensi di questo o di quello?”. Se rispondi affrettatamente “secondo me è un deficiente”, è probabile che poco dopo Pinault ti proponga di curare una mostra insieme al medesimo deficiente».
L’intelligenza del gallerista
Tra gli artisti che Vincenzo Trione ha scelto per il Padiglione italiano c’è anche il sudafricano William Kentridge: «È un artista - scrive Bonami - a due velocità. La velocità delle sue origini, originale, forte, solida e radicata. La velocità dell’arte contemporanea, superficiale, prevedibile, banale. Un grande artista bifronte. Preferisco il cacciatore da safari amante della musica e un po’ naïf, al protagonista di Biennali e Documenta diventato quasi un cacciatore di frodo».
Bonami a sinistra con Larry Gagosian al centro e altri amici
Per finire una constatazione che tranquillizzerà quelli che nei confronti dell’arte contemporanea si sentono come Alberto Sordi e signora alla Biennale nel film Le vacanze intelligenti. A proposito del gallerista Massimo De Carlo scrive: «Se Duchamp diceva “stupido come un pittore”, per De Carlo si può dire “intelligente come un gallerista”, ma è un po’ una contraddizione. L’intelligenza non è la prima qualità richiesta per un gallerista. Nell’arte essere un po’ scemi non fa mai male e più che altro non ti fa stare male».
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